Le classifiche internazionali sulla competitività vanno prese sempre con le molle. La classifica stilata dal World Economic Forum, per esempio, mette l’Italia al 42° posto, dopo il Botswana: francamente, si tratta di una posizione evidentemente poco credibile. I risultati finali di tali classifiche dipendono dagli indicatori scelti (o esclusi), dalla loro effettiva misurabilità (come si fa a misurare fenomeni qualitativi, come la meritocrazia?) e dal peso che si assegna a ciascuno di essi. Per non dire, quando si fanno comparazioni tra paesi, che bisognerebbe suddividere l’universo di riferimento in classi dimensionali.
Non ho conoscenza di come sia stato costruito il ranking presentato dall’Osservatorio Ambrosetti, ma temo che risenta di distorsioni di questo tipo. Risulta francamente poco credibile che l’Italia sia più competitiva, nell’Ue a 27, delle sole Grecia e Romania; e che, al tempo stesso, le Repubbliche Baltiche o il Portogallo lo siano di più. Siamo una delle otto maggiori potenze industriali del mondo, siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, dopo la sola Germania.
Ciò non significa che questi ranking non abbiano il merito di proporre problemi reali all’opinione pubblica e ai decision maker. L’Italia ha, purtroppo, problemi di competitività. Nell’economia globalizzata, la competitività infatti non dipende solo dalle imprese, ma è sempre più una competitività di sistema, come ha ricordato anche Giorgio Squinzi al Convegno dei Giovani di Confindustria a Santa Margherita Ligure pochi giorni or sono.
Competitività di sistema significa competitività delle strutture che formano l’ambiente organizzativo delle imprese: il sistema dello Stato e della Pubblica amministrazione, il sistema creditizio-finanziario e il sistema formativo e della ricerca. Con riferimento a questi sistemi, le criticità sono differenti. Quanto al sistema formativo e della ricerca, le qualità e le criticità sono state esposte con dovizia di dati da Giorgio Vittadini: abbiamo un sistema formativo valido, nonostante una bassa qualità della spesa (prova ne è la fuga dei cervelli: nessuno prenderebbe i nostri cervelli se non fossero ben formati), ma sostanzialmente monopolistico-statale – cosa che impedisce una concorrenza regolata in grado di aumentarne la qualità – e un grave sottoinvestimento nell’altissima formazione (master e dottorato). Quanto alla ricerca, non si tratta tanto di qualità, quanto di difficoltà a dialogare con il sistema delle imprese.
I veri punti dolenti riguardano gli altri sistemi. Quanto alla Pubblica amministrazione, le troppe norme, la loro instabilità, le sovrapposizioni di competenze, la mancanza di un sistema di sanzioni/premi nel rispetto dei tempi in ogni ambito costituiscono il primo e più grande freno agli investimenti e alla competitività, soprattutto in un’economia globale nella quale la velocità costituisce il primo e più decisivo fattore critico di successo o insuccesso. Il caso della giustizia civile è emblematico: 10 anni di media sono troppi e scoraggiano gli investitori interni ed esteri. Un imprenditore italiano ha da poco aperto in Svizzera uno stabilimento per fare pannelli fotovoltaici, per il fatto che gli elvetici rilasciano la valutazione di impatto ambientale in due mesi, mentre in Italia ci vogliono tre anni. In questo capitolo vanno annoverati anche la carenza della qualità delle infrastrutture fisiche sia hard che soft (come la banda larghissima) e di un fisco che sottrae le risorse per gli investimenti.
Quanto al sistema finanziario e del credito, come ha ben spiegato Giovanni Marseguerra su queste pagine, la forte contrazione del credito sta creando non pochi problemi al nostro tessuto produttivo. Così come mancano forme di sostegno finanziario a nuovi progetti imprenditoriali, in particolare per le start-up tecnologiche: l’esiguità del venture capital in Italia non registra miglioramenti nel tempo.
Tutti parlano di crescita e la legano ai finanziamenti pubblici. Ma la strada per la crescita passa dalla riforma di questi sistemi, assai prima e molto di più che da qualunque incentivo.