La gente è più povera e spende meno. La percezione comune è stata certificata dagli ultimi dati dell’Istat. Ad aprile, l’indice destagionalizzato delle vendite al dettaglio è calato dell’1,6% rispetto al mese precedente. In un anno, invece, le vendite segnano un tonfo del 6,8%. E’ il dato peggiore dal 2001. Siamo in recessione, del resto, si sapeva. Non tutti, invece, sanno che chi dovrebbe operare per tirarcene fuori ci sta, invece, sempre più affossando. E’ quanto emerge, per lo meno, dall’ultimo rapporto del Centro Studi di Confindustria. Secondo cui non solo le politiche dell’Europa, degli Stati nazionali e della Bce si stanno rivelando inadeguate, ma, addirittura, con la fissa del rigore a tutti i costi, stanno inasprendo la fase recessiva. IlSussidiario.net ha chiesto a Leonardo Becchetti, professore Straordinario di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata, cosa sta succedendo. «La gente sa che deve pagare l’Imu, che la pressione fiscale è alle stelle e  le prospettive economiche sono grigie; quindi, risparmia di più. L’aggregato non fa altro che riflettere sui timori della gente comune». Secondo il professore, Confindustria, tutto sommato, ha ragione: «A differenza dell’Europa, ci sono aree che, in questo momento, hanno deciso di usare in maniera più espansiva la politica monetaria. Nazioni come gli Stati Uniti o il Giappone che, pur avendo debiti e deficit estremamente elevati, stanno mettendo al primo posto la crescita nella convinzione che, una volta che l’economia reale sia ripartita, i conti si potranno aggiustare».



In realtà, in Europa, non ci sarebbe neppure bisogno di accantonare il rigore. «Si parte dalla considerazione in base alla quale le  misure necessarie per rilanciare la crescita non sarebbero a costo zero. E’ vero. Tuttavia, dobbiamo considerare il fatto che, dal punto di vista finanziario, siamo costretti a una serie di sacrifici enormi». Per questo, per Becchetti, il piano anti-spread suggerito da Monti alla Merkel, oramai pressoché naufragato, era assolutamente ragionevole. «Consisteva nel dare la possibilità alla Bce di acquistare titoli di Stato sul mercato secondario una volta che lo spread degli Stati avesse superato una certa soglia d’allarme. Avrebbe calmierato gli effetti delle speculazione dei mercati finanziari, determinando un’enorme risparmio e consentito di non dover sacrificare miliardi di euro solo per ripagare gli interessi sul debito». Risorse che si potrebbero, invece, utilizzare – appunto – per la crescita». 



Ecco attraverso quali misure: «Occorrerebbe, anzitutto, sbloccare i crediti che le aziende vantano nei confronti delle pubbliche amministrazioni e che non riescono a esigere. In molti casi, non dar seguito a tale atto dovuto fa sì che le aziende si trovino costrette a chiudere perché non sono in grado di far fronte alle spese correnti, come pagare le bollette. O, a loro volta, in un perverso circolo vizioso, i propri fornitori». Successivamente, secondo Becchetti, le risorse risparmiate dal taglio dello spread consentirebbero di agire su altri due fronti: «intervenire sulla banda larga consentirebbe alla nostre imprese di esprimere al meglio il proprio potenziale di competitività, mentre se la nostra giustizia funzionasse, gli investitori sarebbero molto meno scoraggiati dall’investire in Italia». E infine: «Una riduzione della pressione fiscale sul ceto medio consentirebbe di rilanciare i consumi verso cui il risparmio proveniente dal minore esborso fiscale si indirizzerebbe».



 

(Paolo Nessi)