Un nuovo protagonista della finanza mondiale? No! Sono anni che i “fondi sovrani” sorvolano il mondo. Bernardo Bortolotti li studia da anni, da solerte brillante economista nostrano. Prima della crisi, questo fondi sollevavano un gran scalpore. Ora sono ben graditi investitori, nella scarsità di liquidità interbancaria. Tanto rumore per nulla, dunque? Il gran rumore che si fa sui fondi di investimento posseduti non da investitori privati, ma da stati sovrani (di qui il nome anglicizzato di “fondi sovrani”) è giustificato? Se si guardano i numeri, il loro ruolo sembra assai ridotto. Eppure, tutti parlano di essi come delle “nuove super potenze finanziarie”. Il peso che esercitano sui prezzi e sui volumi scambiati non solo di titoli ma di merci è molto più rilevante di quello che ci dicono le statistiche. Dove sta la ragione di tutto ciò?



Il primo motivo è relativo agli andamenti dei prezzi delle cosiddette commodities, tra cui spiccano i minerali non ferrosi e il petrolio e, più recentemente, anche alcuni importanti beni alimentari. Chi li possiede accumula enormi ricchezze e i giacimenti di tali commodities sono oggi sempre più nelle mani degli Stati. Nell’industria degli idrocarburi si legge questo processo con plastica evidenza. Vent’anni or sono il 70% circa degli assets petroliferi, ossia i giacimenti, erano nelle mani delle grandi compagnie. Oggi più dell’85% è posseduto da potenze statali, sparse in tutto il pianeta: dalla Cina, al Golfo Persico, all’America Latina – e non solo in Bolivia con Morales e in Venezuela con Chavez, ma anche in Brasile. E pensate un po’: anche la Norvegia e l’Alaska, con i loro giacimenti di idrocarburi, hanno i loro fondi sovrani, come tutti gli stati del Golfo, Singapore, la Cina, la Libia, e l’Algeria.



Vi è poi un secondo fenomeno interessante. I paesi asiatici che hanno dato vita ai fondi, l’hanno fatto in base al comportamento finanziario che essi hanno assunto dopo la crisi finanziaria del biennio 1997-1998: molti di questi paesi hanno iniziato ad ammassare enormi riserve in divise estere, dollari Usa ed euro, principalmente, per proteggersi da nuovi shocks. Ma con queste riserve si può guadagnare assai di più di quanto non si è fatto per anni e anni, acquistando bond dei paesi europei e del Tesoro nord-americano. Si possono investire i denari andando a caccia di migliori rendimenti nel mondo intero.



Le strategie sono diverse: i norvegesi vogliono costruirsi solidi fondi pensioni pubblici; i cinesi e i sudcoreani grazie a tali fondi vogliono comprare tecnologie e conoscenze che non possono produrre in casa propria; la Russia e l’Iran usano i fondi sovrani per controbilanciare la volatilità dei prezzi dell’energia. In definitiva, anche i fondi sovrani sono una risposta al pericolo della prevalenza del risparmio e della rendita sull’investimento. Soprattutto oggi, quando giunge dalle grandi companies angloamericane un grido angoscioso in merito alla scarsa liquidità e alla difficoltà a ottenere credito dalle banche, sempre più invischiate in una crisi di fiducia e di assets patrimoniali senza fine. I fondi sovrani, invece, investono.

Il problema a parer mio non risiede tanto, dunque, nell’emergere dei fondi sovrani. L’unico reale problema è quello della loro governance: non hanno trasparenza, non comunicano ai mercati i loro bilanci con chiarezza, non esplicitano le loro strategie. Solo i norvegesi e quelli dell’Alaska, significativamente, lo fanno. È una situazione che deve finire: i fondi sovrani devono divenire delle piattaforme finanziarie da liberalizzarsi, per consentire ai cittadini di quei paesi di accedere più facilmente ai mercati finanziari internazionali. Questo è l’obbiettivo che attraverso la governance il mondo finanziario deve porsi.

Sono sbagliate le reazioni inconsulte che oggi invece sono prevalenti. Non si è superato lo schema che si presentò alla finanza mondiale nel 1987, allorché il fondo sovrano del Kuwait acquistò il 27% della British Petroleum e l’algida signora Thatcher impose agli emiri di cedere più della metà delle azioni acquistate. Oggi, negli Usa, per esempio, tutti i concorrenti in lizza nelle primarie, Democratici o Repubblicani che siano, sono su posizioni decisamente protezioniste e nazionaliste, molto rigide e sempre più accentuate. Ma la ragione è profonda. È cambiato il corso dell’economia mondiale globalizzata e non sempre si ha la freddezza necessaria per affrontare il cambiamento nella crisi epocale, soprattutto in democrazia, dov’è la maggioranza che fa opinione.

Imperversa la crisi finanziaria e all’inizio del nuovo secondo millennio il capitalismo moderno si sta formando anche nei paesi comunisti asiatici, nelle società tribali del Golfo, negli stati ierocratici come l’Iran, nella Russia modernizzatrice di Putin, erede dell’assolutismo beneficamente trasformatore. Essi vogliono aprirsi al mercato che spesso ideologicamente negano. In effetti essi sono di già paesi capitalistici, ma a capitalismo monopolistico di Stato, a direzione burocratico-assolutista e neo borghese e ripercorrono con grande rapidità il percorso secolare del capitalismo originario. Ecco il significato storico generale dei fondi sovrani!

Ciò che fa notizia e induce a meditare è che dopo venti anni di peana al liberismo dispiegato, la globalizzazione si arricchisca di nuovi importantissimi protagonisti: le potenze statali, le potenze nazionali. Tutto il contrario del mercato. Con esse il capitalismo di mercato deve ora confrontarsi in una lotta che si intreccia con i conflitti per gli alimenti, per il ferro e l’acciaio, per il petrolio e per il gas, per l’acqua e… per il potere. I fondi sovrani sono il nuovo volto della lotta per il potere mondiale.