Il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, interviene al Festival dell’Economia a Trento e dice senza mezzi termini: “La situazione è tale che ogni giorno mi chiedo con ansia cosa altro aggiungere all’agenda per le crescita. Mi riferisco al grande problema dell’occupazione che riguarda l’Italia come l’Europa”. Non nasconde i numeri Passera, specificando che con i suoi sette milioni di persone, tra disoccupati, sospesi dall’occupazione e sottoccupati, l’Italia ha quasi 28 milioni di persone che sono coinvolte in questa crisi. Quindi, la crescita diventa impellente, decisiva, ma il problema, così come lo si continua a reclamare, resta in questo momento difficile, problematico, tanto che si rischia di essere ripetitivi. Paolo Preti, docente universitario, Direttore del Master piccole imprese della Sda della Bocconi, è uno dei più bravi analisti della realtà delle imprese italiane. Le conosce, ne vede la “vita”, ne esamina il percorso, guarda con attenzione la loro evoluzione, le loro strategie, i processi innovativi. La crescita è collegata direttamente alla realtà delle imprese.



Professor Preti, lei che ne pensa di questa crescita che non sembra proprio arrivare e nemmeno partire?

Sì, è vero, rischiamo di essere ripetitivi. In questo momento, con tutto quello che sta capitando, a livello nazionale e internazionale, è veramente difficile parlare di crescita. Mi rendo conto di quello che sta provando il ministro Passera e devo anche dire che ha fatto il lavoro più duro, almeno per scongelare quei 30 miliardi, dei 100, che lo Stato deve alle imprese. Il modo sarà anche farraginoso, lungo, ma non si può negare il suo impegno, tenendo presente di che cosa sia anche la realtà burocratica italiana e che cosa sia la realtà italiana in generale.



Le sembra tutto bloccato sul mercato interno? Molti imprenditori, persone che magari lei conosce, elencano i soliti problemi da mesi: crollo della domanda interna, pressione fiscale altissima, problemi con le banche, burocrazia asfissiante e inefficiente, un grande mutamento di strategia delle imprese che è fatto per puntare soprattutto sull’export.

Andiamo con ordine. Il problema con le banche esiste e si conosce. Ci vorrà del tempo per risolverlo, ma ormai occorre prenderne atto. Poi è indubbio che le imprese, che lavorano solo sul mercato interno, soffrano molto di più di quelle che da tempo hanno scelto l’export. Ma mi lasci aggiungere una considerazione. La tragedia dei capannoni crollati in Emilia, dopo la seconda grande scossa di terremoto, rivela un fatto: che le commesse ci sono ancora per le aziende. Vale a dire che ci sono aziende che dopo la prima scossa, non hanno chiuso bottega, né sono andate al mare, perché avevano lavoro da fare. I termini della tragedia, con i morti rimasti sotto i capannoni, così come è avvenuta, li stabilirà la magistratura. Ma resta il fatto che le imprese lavorano ancora, anche a rischio sismico.



 

C’è comunque questa pressione fiscale definita ormai insostenibile. Molti intervistati parlano di un “total tax rate” che oscilla tra il 68% e il 70%. E in più c’è la burocrazia.

 

Noi siamo tra due pressioni, che caratterizzano questo Paese. La pressione fiscale è alta. Però ci sono anche gioiellieri che denunciano quindicimila euro all’anno, bar che più o meno fanno la stesa cosa. E’ difficile muoversi tra queste due pressioni e tra queste contraddizioni. Anche la burocrazia è asfissiante, spesso è un peso insopportabile. Ma mettiamoci anche quelli, cittadini che hanno subito presentato domanda di entrare nella lista dei colpiti dal terremoto, pur abitando in Comuni limitrofi che non sono neppure stati sfiorati dal sisma.

 

Da quello che comprendo, lei dice che ci vorrebbe uno sforzo di coesione maggiore, di responsabilità generale con uno sforzo collettivo più unitario in un momento come questo?

Voglio dire che nessuno nega che il momento sia molto difficile. E si sa benissimo che esiste una legge sociologica di ferro: nessuno, se non in presenza di catastrofi naturali o di guerre, accetta di ritornare a una condizione di vita peggiore. Ma oggi il problema è anche cogliere alcuni elementi di tenuta, che ci sono. Il traffico, per l’aumento della benzina, sarà diminuito, ma non si è bloccato. Si andrà di meno al ristorante, ma qualche cosa in fondo ce la possiamo ancora concedere, da quello che posso vedere. Ma, a parte questi aspetti, ci sono anche dati significativi. L’Abi, ad esempio, ha fatto notare che i depositi in banca degli italiani sono stabili. Non esiste da noi la corsa al “bancomat” come è avvenuto in Grecia e forse sta avvenendo in Spagna. Sono diminuiti i capitali stranieri, ma quelli italiani sono cresciuti dell’1,5% a marzo, del 2,2% tra marzo e aprile. Non sono segnali da trascurare, vuol dire che esiste ancora una capacità di risparmio. Tutto questo, in una simile situazione, è importante.

 

Corrado Passera, nel suo intervento a Trento, ha parlato anche di Tobin Tax, cioè la tassazione delle operazioni finanziarie. Dice che anche qui si sta studiando la situazione. Ma non sarebbe meglio pensare a riforme un po’ più radicali come uno stop allo shadow banking?

 

Senza dubbio. E poi il ritorno della banche al loro ruolo di agenzie di credito, con la separazione di quelle che fanno investment banking, oppure private equity. Insomma, le banche hanno avuto una funzione importante nella loro collaborazione con le imprese. E’ questa che devono recuperare.

 

Si ripropone in questi giorni la credibilità internazionale di Mario Monti e del suo “governo dei tecnici”. Regge ancora questa credibilità?

 

E’ il vero e più importante risultato che questo governo ha ottenuto. Il fatto che Mario Monti sia contattato da Barack Obama per fare pressione su Angela Merkel, rivela credibilità internazionale del governo italiano. Così come stanno facendo altri leader europei. Monti sembra essere più a suo agio all’estero che in Italia.

 

(Gianluigi Da Rold)