Con le sue dichiarazioni critiche sul governo tecnico e sui rischi di “macelleria sociale”, Giorgio Squinzi ha suscitato un confronto sostanziale tra le forze politiche ed economiche del Paese cui non si assisteva da anni: probabilmente dalla campagna elettorale del 2006, all’ultimo voto tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Già quest’evidenza – immediatamente colta da Il Sussidiario due giorni fa – basterebbe a smentire l’ondata di giudizi negativi contro le prese di posizione del leader di Confindustria: “past president” di Viale dell’Astronomia e di grandi multinazionali (molto più grandi di Mapei) occupano quotidianamente da anni le pagine dei grandi giornali -spesso preannunciando impegni politici – ma non riescono praticamente mai a innescare veri dibattiti.
Se ad aprire veramente la campagna elettorale dev’essere un industriale che ha sempre costruito di tasca propria il suo successo, che sta esercitando le sue funzioni di rappresentanza (gratuita) dei colleghi, trasparentemente lontano da ogni ambizione politica, il problema è dei politici (che fanno melina intorno alla riforma elettorale) e del governo in carica, indipendentemente dalle ambizioni politiche: non di un leader della business community (a proposito: se qualcuno ancora non ha capito cos’è la sussidiarietà in politica, Squinzi ne ha fornito un esempio concreto ed efficace).
“Inesperto”, “cattivo comunicatore”, addirittura “nemico del Paese”. In via di analisi dialettica e paradossale, proviamo ad attagliare i duri aggettivi che hanno bersagliato Squinzi allo stesso premier Mario Monti, che si è messo personalmente alla guida degli scandalizzati. Se è vero che la Confindustria ha quasi sempre cercato “governi amici”, è anche vero che il capo di un governo repubblicano non può permettersi di bollare – con toni vagamente staliniani – come “nemico del popolo” il leader di una grande organizzazione di imprese di mercato: tanto più che, a differenza del premier e del suo governo, Squinzi è stato eletto nella sua organizzazione. Il diritto di critica espresso in ruoli e forme proprie (e Squinzi in questo è stato ineccepibile) non è il sale della democrazia: è la democrazia stessa (a proposito: la dottoressa Anna Maria Tarantola, vicedirettore generale uscente di Bankitalia nonché docente della Cattolica, ha suscitato più di una perplessità disertando la prima riunione del consiglio Rai. Ha voluto rimarcare la “diversità” della sua nomina a presidente – da parte di Monti, premier e ministro dell’Economia -, rispetto ai sette consiglieri di designazione parlamentare. Si è sottratta al primo confronto con i consiglieri parlamentari, temendo che venisse meno una fiducia “obbligata”. Per di più ha lasciato che un grande giornale preannunciasse questo passo e denunciasse a suo nome presunti “ricatti” da parte del partito di maggioranza relativa, democraticamente espresso in Parlamento).
Monti – difeso in maniera bulgara da banchieri centrali e grandi quotidiani – è forse caduto lui, d’altronde, in un errore di comunicazione politica quando ha contro-accusato Squinzi di “far risalire lo spread”. Ha rimesso lui stesso il dito sulla piaga equivoca che preoccupa Squinzi: le “riforme strutturali” si sono fatte o si stanno facendo per rilanciare l’Azienda-Italia o perché “lo vogliono i mercati”? Lo spread è causa o effetto della crisi? Il governo tecnocratico deve traghettare il Paese verso una nuova fase di stabilità o è la task force che certifica la perdita di sovranità a vantaggio non tanto dell’Europa germano-centrica, quanto dei “signori dello spread”?
Il botta e risposta tra Squinzi e Monti è avvenuto poche ore dopo le clamorose rivelazioni sulle manipolazioni globali della “banda del Libor”. Quando Squinzi denuncia il rischio di “macelleria sociale” chiede – neppure troppo demagogicamente – se l’incidente-esodati o altri “incidenti” recenti non solo fossero evitabili, ma siano stati in realtà indebitamente pagati a Barclays e alle banche complici. Si chiede se il -47% dei mutui in Italia sia la giusta “cura dimagrante” di un Paese che non è stato certamente a digiuno di immobiliarismi grandi e piccoli; o se sia invece l’ennesima, ingiusta sconfitta italiana in un‘Europa in cui Monti e Draghi immancabilmente “vincono”, ma ai cui tavoli si regalano senza problemi 30 miliardi alle banche spagnole fallite. In Italia, invece, solo credit crunch per le imprese “di Squinzi” e Procure all’offensiva contro i banchieri.
Lo stile di Monti, in ogni caso, è parso in ultima analisi più “esternatorio” di quello di Squinzi quando ha lanciato lo slogan di una campagna elettorale: “Senza di me il diluvio”. Al di là delle ennesime smentite di rito di ieri, può darsi che Monti abbia i numeri personali per essere un buon premier “politico”, può darsi che la dialettica politica gli regali al voto anche i numeri parlamentari. Può anche darsi che l’Italia abbia bisogno di altri mesi di “convalescenza tecnica”, mentre è certo che l’aggiustamento dei rapporti tra mercati e politica, fra oligopolio bancario, élites tecnocratiche, democrazie mature ed “emergenti” è il grande problema politico-economico dell’oggi e prevedibilmente anche di un lungo domani.
Ma certamente non aiuta Monti rammentare sbrigativamente il suo curriculum tecnocratico (non diverso da quello di Mario Draghi): finirà quasi sicuramente per autorizzare contro-campagne demagogiche che già si intravvedono all’insegna del “fuori dall’euro”. Com’è possibile dar torto pieno a chi oggi accosta – in maniera certamente rozza e approssimata – il caso-esodati a quello delle privatizzazioni “in saldo” degli anni ‘90? Anche allora lo voleva l’Europa: e il Paese “orizzontale” (così Giuseppe De Rita ha efficacemente qualificato “l’Italia di Squinzi”) è stato al tavolo, ha provato di saper stare nell’eurozona.
Può darsi – anzi è probabile – che ora ci vogliano altri esami. Ma certamente quello stesso Paese non è disposto a sentirsi dire da un ex tecnocrate Ue – uno di quelli di allora – che bisogna rifare tutti gli esami da zero perché lo vogliono i mercati. I compiti a casa e i voti – Squinzi lo ha comunicato molto efficacemente – in una democrazia li dà l’elettorato al Parlamento e al governo: non viceversa. E compito di un governo vigilato da un Parlamento è quello di fare gli interessi del Paese, non esclusivamente di tenere a bada i “signori dello spread” o svolgere mediazioni tecnocratiche in Europa. E se un Parlamento e un governo non riescono a fare politica economica, a trovare strumenti efficaci o praticabili (ad esempio, sul terreno delle liberalizzazioni), in democrazia si torna al voto: in Grecia lo hanno fatto due volte in poche settimane. In quella sede il voto, al massimo della loro responsabilità, lo danno – e se lo danno – i cittadini-contribuenti-imprenditori-lavoratori-risparmiatori.
Squinzi ha detto solo questo. Tenendosi perfino nella penna che il premier aveva incaricato un collega bocconiano ed editorialista del Corriere di studiare in parallelo alla “spending review” una veloce riforma dei “sussidi alle imprese”: brutto termine già in partenza, sorprendente per un premier liberista (all’Impresa-Italia “di Squinzi” non servono sussidi: serve una tassazione più moderna o energia a costo “non da monopoli pubblici” per chi, esodato, deve reinventarsi imprenditore; per il 36% di giovani disoccupati cui non troveranno mai un posto fisso e devono essere capaci di essere imprenditori di se stessi).
Pochi giorni fa, comunque, il professor Giavazzi ha scritto una letterina al suo Corriere in cui ha detto più o meno che lui il suo compitino a casa lo ha fatto e lo ha consegnato al suo preside, che evidentemente lo sta correggendo con calma. Nel frattempo Giavazzi ha ripreso a scrivere gli editoriali di sempre sul Corriere: quelli in cui si dice che il governo può fare di più e meglio, anzi sta sbagliando tutto (ma perché il Corriere sì e Squinzi no?). Ci sono pochi dubbi che “il governo di Squinzi” non sia e non possa essere questo: e il leader di Confindustria avuto il merito certo di dirlo “democraticamente”. Prima di criticarlo (lecitamente e democraticamente), altri dovrebbero dimostrare lo stesso coraggio coerente delle proprie idee e delle proprie azioni.