Altolà al patto italo-cinese di sfruttamento della manodopera sottocosto per la concorrenza sleale nella produzione dei divani forlivese. Un connubio che ha messo fuori gioco colleghi operanti in piena regola nel medesimo settore. È di ieri la notizia che il Tribunale di Forlì ha condannato in primo grado quattro imprenditori italiani, operanti nel settore divani e poltrone, colpevoli di aver siglato un accordo con due colleghi cinesi che impiegavano manodopera cinese senza rispettare né gli obblighi previdenziali e contributivi, né quelli di sicurezza sul lavoro (art. 437 c.p.), al fine di abbassare i costi di produzione. Il caso, sollevato nel 2009 da due imprenditrici costrette a chiudere poiché non riuscivano a competere sui costi di gestione e dunque sui prezzi finali, si è provvisoriamente chiuso con una condanna di un anno per i quattro imprenditori italiani e quasi due per i due cinesi. Mentre sulle pagine dei maggiori quotidiani nazionali già si plaude a una “sentenza storica” che avrebbe sventato “Divanopoli”, ilsussidiario.net ha chiesto a Giovanni Marseguerra, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano, di fare chiarezza sulla questione.



Come giudica la sentenza di ieri?

La prima riflessione che bisogna fare è senz’altro che si tratta di una sentenza di primo grado. Pertanto bisogna vedere se verrà confermata nei gradi successivi di giudizio. Dunque dobbiamo fare un ragionamento che in qualche modo prescinda dall’aspetto specifico. Nella vicenda, secondo quanto riportato dai giornali, sarebbero stati violati i diritti dei lavoratori e questo sarebbe stato fatto per abbattere i costi di produzione. Alcuni imprenditori avrebbero fatto una sorta di accordo con imprenditori cinesi, facendo lavorare per molte ore e senza sicurezza lavoratori cinesi, al fine di abbattere i costi. Dobbiamo vedere se poi le cose siano effettivamente andate così. Ma questo lo accerterà la magistratura.



Cerchiamo allora di trarre qualche considerazione di tipo più generale.

Le riflessioni che possiamo fare sono diverse. La prima è che si tratta di un fenomeno limitato. Molto grave, se fosse dimostrato, perché sarebbe un comportamento scorretto dell’imprenditore che danneggia i molti colleghi del settore che invece si comportano in modo corretto. La cultura del lavoro, inoltre, in Italia è molto forte e credo che siano ben pochi gli imprenditori che ricorrono a queste violazioni dei diritti della legge per essere competitivi. Gli imprenditori italiani infatti da sempre sono abituati a competere sui mercati internazionali rispettando leggi, regole e soprattutto i diritti delle persone.



E poi?

La seconda riflessione che farei è che siamo un Paese con un grande export. Nel 2011 l’export è ritornato ai livelli record del 2008, prima della crisi. Abbiamo una grande capacità competitiva. Siamo primi nell’export nei settori dell’abbigliamento, cuoio, pelletteria, calzatura e tessile; siamo secondi nella meccanica, l’elettronica e i manufatti. Abbiamo una grande capacità competitiva legata al territorio e agli artigiani e non abbiamo certo bisogno di violare i diritti dei lavoratori per essere competitivi. D’altro canto la Cina è un partner commerciale importante per l’Italia: il valore delle nostre esportazioni in Cina è passato da 1,8 a 10 miliardi dal 1999 al 2011.

 

Ma sul caso in particolare cosa si può dire?

 

Il significato che attribuirei a questa sentenza è soprattutto di tipo etico, sociale. È importante in un momento di crisi di competitività rispettare i diritti del lavoro. Di chiunque si tratti. Ed è altresì importante saper fare affidamento sulla nostra cultura del lavoro che è molto diffusa e radicata. I nostri imprenditori sotto questo profilo non hanno bisogno di prendere lezioni da nessuno. Il senso del lavoro in Italia è forte, rispettoso dei diritti e attento alle persone.

 

Cosa si può fare per evitare il ripetersi di casi simili?

 

A dire il vero il problema è relativamente semplice: basterebbe che nei contratti di fornitura ci fosse sufficiente chiarezza sulle modalità attraverso cui la fornitura avviene. In questo modo l’imprenditore ultimo avrebbe la responsabilità anche sul processo di fornitura.

 

È esagerato allora parlare di una “sentenza storica”?

 

Io limiterei questa sentenza e questo caso a una particolare situazione. Non gli darei una valenza generale. Certamente ci sono delle difficoltà legate a una certa immigrazione cinese, però è anche vero che esiste anche una larga fetta di questi immigrati che ha attività imprenditoriali che competono onestamente con le altre attività imprenditoriali locali. Il problema della concorrenza dei cinesi è certamente importante a livello Paese, ma il fatto specifico mi sembra che non sia così rilevante.

 

Un fuoco di paglia dunque?

 

Bisogna vedere se la sentenza sarà confermata. Resta un segnale di maggiore responsabilizzazione a tutti livelli, sia dei lavoratori, sia degli imprenditori. Ma gli imprenditori italiani, ripeto, sono sicuramente responsabili. Il caso riportato è marginale nella cultura imprenditoriale italiana.

 

(Matteo Rigamonti)