Buona parte degli equilibri mondiali si ritagliano sugli obiettivi dei fondi sovrani. E si stanno spostando, sempre di più, verso est. L’Oriente, con armi finanziarie, sta conquistando l’Occidente. L’acquisizione del marchio Valentino da parte di una società partecipata da «un primario investitore» del Qatar (così recita un comunicato dell’azienda Mayhoola for Investments Spc, ora proprietaria del gruppo) è solo l’ultima di una serie di operazioni che vede i fondi sovrani in prima fila. Si calcola che dispongano di 4600 miliardi di dollari di liquidità (pari al 6% del pil mondiale), il 54% dei quali derivanti dai proventi del greggio; e che il 76% di essi faccia capo a Paesi non democratici. Ma a caval donato non si guarda in bocca e, se il valore della loro partecipazione nei listini azionari europei corrisponde al 3%, vuol dire che le aziende in crisi non ci vanno tanto per il sottile quando hanno bisogno di rimpinguare le proprie casse. «Di certo, il problema si porrebbe se tutte le imprese dovessero finire in mano straniera. O se lo diventassero quelle che hanno un interesse strategico pubblico come Snam e Fincantieri, anch’esse nel mirino dei fondi stranieri (e, in tal senso, bene ha fatto il governo italiano a porre dei limiti all’entrata nell’azionariato da parte dei gruppi esteri)», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Giuseppe Colangelo, professore di Economia Politica presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria. Al di là di questi casi, quindi, secondo il professore, laddove le imprese necessitino di capitale per evitare la chiusura, l’apporto di liquidità proveniente dall’estero va addirittura incoraggiato. «Non c’è da temere la scomparsa di quella parte del nostro tessuto industriale che, senza un aiuto esterno, sarebbe comunque scomparso. D’altronde, esso si caratterizza per la dispersione in migliaia di piccole imprese che spesso, senza sostegno, chiudono, cancellando così i relativi posti di lavoro».
In tal senso, anche i timori circa gli svantaggi per i lavoratori italiani vanno ridimensionati. «Questi gruppi fanno, ovviamente, i propri interessi. Ciò non significa, tuttavia, che contrastino con la creazione di occupazione o con la produzione di ricchezza». Ciò che è fondamentale è che l’acquirente paghi le tasse in Italia. «I gruppi internazionali hanno modo di trasferire all’estero parte degli utili prodotti in Italia, ma vanno rispettate le nostre leggi». Le tasse sugli utili prodotti in un Paese vanno pagate in quel Paese. Su questo, non ci piove. «Capita non di rado, tuttavia, che individuino escamotage finanziari o di bilancio per esportare il modo illecito il capitale alzando, ad esempio, i prezzi di trasferimento o facendo pagare consulenze fittizie particolarmente onerose, facendole figurare come costi; questi espedienti, ovviamente, sono illegali e vanno perseguiti». Vi è poi un problema di natura etica, relativa alla scarsa democraticità dei Paesi che possiedono tali fondi.
Sarebbe necessario interrogarsi sulla provenienza di quei soldi, ma accertarlo è impresa piuttosto complicata. Il fatto è che nel momento in cui accettiamo di partecipare a un sistema capitalistico che, ormai, agisce su scala mondiale, non possiamo fare altro che accettarne anche le sue contraddizioni». Vale, tuttavia, il rovescio della medaglia. «Nulla ci impedisce di creare un fondo italiano che operi e acquisti negli altri Paesi. Almeno sul piano teorico». Negli ultimi anni, infatti, il baricentro del potere capitalistico mondiale si è spostato a Oriente. «I singoli Stati europei, da soli, non sono in grado di far fronte a potenze di fuoco di capitali quali quelle di Cina e India». C’è solo un modo per impedire la “colonizzazione”: «L’integrazione politica a livello europeo è diventata, ormai, irrinunciabile. Se sussistesse la volontà, infatti, sarebbe possibile anche istituire un fondo sovrano comunitario in grado di concorrere con quelli stranieri».
(Paolo Nessi)