Il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, ieri ha riferito alla Camera dei deputati sul sequestro dell’Ilva di Taranto. “La situazione ha evidenti impatti ambientali e probabili impatti sulla salute che vanno messi in relazione alle normative del tempo e alle autorizzazioni nel tempo ricevute dagli impianti, come è accaduto per tutti gli impianti del genere in Europa”, ha sottolineato il ministro, che poi ha aggiunto: “In Italia le procedure di valutazione ambientale sono molto lunghe, troppo se comparate con altri Paesi europei, e rischiano di essere fuori fase rispetto a investimenti in tecnologie”. Ilsussidiario.net ha intervistato Gian Maria Gros-Pietro, dirigente d’azienda e professore di economia. 



Quali sarebbero gli effetti della chiusura dell’Ilva sull’economia italiana?

Quello dell’Ilva è il più grande stabilimento europeo, produce 10 milioni di tonnellate l’anno, cioè circa la metà della produzione italiana. Se venisse a mancare noi dovremmo comperare quell’acciaio da altri, che ovviamente si stanno già “fregando le mani”.



Ci sarebbe quindi un vantaggio da parte delle altre imprese europee?

Sappiamo che stiamo attraversando un periodo di crisi economica, tutti gli impianti sono sottoutilizzati e se il più grande stabilimento d’Europa si ferma tutti gli altri faranno festa.

Con quali ricadute per il nostro Paese?

L’intera produzione dell’Ilva inizierebbe a essere realizzata in un altro Paese. Avremmo quindi molte migliaia di lavoratori che resterebbero senza il posto di lavoro. L’occupazione diretta è stimabile sulle 8mila persone, e poi c’è tutto l’indotto, cioè le imprese che lavorano per fornire l’Ilva, le quali non lavorerebbero più, e tutte le imprese che utilizzano i prodotti dell’Ilva.



Può fare un esempio?

Un’azienda pugliese che produce guardrail utilizzando i laminati che vengono da uno stabilimento distante tre chilometri può essere competitiva. Se occorre invece fare venire l’acciaio da centinaia di migliaia di chilometri di distanza, non sarà più competitiva, anche perché in Puglia non c’è un grande mercato. Le imprese che utilizzano l’acciaio dell’Ilva riescono quindi a venderlo in gran parte lontano da Taranto, perché se ne approvvigionano a basso costo a poca distanza. Venendo a cessare questa produzione, anche chi fabbrica guardrail smetterebbe di essere competitivo. L’industria italiana è già segnata da una tendenza a delocalizzare la produzione.

La chiusura dell’Ilva potrebbe aggravare questa situazione?

I motivi per cui la produzione è delocalizzata sono diversi, e uno è il divieto di produrre. Quello dell’Ilva non è un caso isolato, basti pensare a tutte le volte che un’impresa chiede di ampliare lo stabilimento, e dopo anni di tentativi non riesce a ottenere i permessi e quindi decide di andare a costruire un nuovo impianto in un altro Paese. Si tratta di casi in cui la delocalizzazione non avviene per motivi economici, ma semplicemente per la mancanza di un’autorizzazione.

L’Ilva quindi non è un caso isolato …

La vicenda dell’Ilva è tipica della situazione italiana, in quanto di punto in bianco si è arrivati alla chiusura. Per spegnere un altoforno ci vogliono dei mesi di lavoro, ma poi non lo si riaccende mai più.

Di fronte a delle morti per inquinamento, il giudice forse non aveva scelta …

Non posso certo mettermi al posto del giudice. Mi piacerebbe sapere se le morti per inquinamento siano dovute a situazioni che esistono ancora o che non esistono più. In passato non erano rispettati gli standard, oggi l’azienda sostiene che lo sono. Quello che mi sembra abbastanza certo è che le morti si sono verificate in una situazione molto diversa da quella attuale.

Quali sono le differenze tra i divieti presenti in Italia e quelli degli altri Paesi Ue?

Le differenze riguardano soprattutto i rapporti con la gestione del territorio, in primo luogo le autorizzazioni a costruire. Quest’ultime non devono essere date sempre, né con eccessiva larghezza. L’importante è che si conoscano i criteri con cui sono assegnate e che le decisioni siano rapide. Quello dell’Ilva è un caso particolarmente critico, perché si tratta di un’industria che di per sé è particolarmente inquinante. Ma ci sono insediamenti come quelli della grande distribuzione organizzata, è famoso il caso dell’Ikea, che certamente non sono inquinanti. La conseguenza è che i posti di lavoro vanno a finire altrove, e sembra ovviamente che questo Paese possa fare a meno di posti di lavoro.

 

(Pietro Vernizzi)

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