L’industria italiana, com’era prevedibile, ha subito non pochi danni a causa delle crisi. Anche sul fronte della propria struttura finanziaria. Secondo il rapporto del Centro studi di Mediobanca, infatti, nel corso del 2011 il rapporto tra debiti finanziari (l’impiego di capitali terzi, provenienti, cioè, da banche o da altri tipi di finanziatori) e mezzi propri (il totale delle attività al netto delle passività) è cresciuto, passando dal 95,8% al 103,6%. Per la verità, di per sé, il dato non è sufficiente per definire con precisione lo stato della nostra economia. Tutt’al più, contribuisce a farsi un’idea. IlSussidiario.net ha chiesto, quindi, a Paolo Preti, direttore della Sda Bocconi, come interpretarlo. A partire da una premessa metodologica. «Queste cifre vanno analizzate prendendole con le pinze – spiega -. A cominciare dalla constatazione del fatto che il passaggio dal 95,8% al 103,8%, pur rappresentando un fattore problematico, manifesta, più che altro, una tendenza. La situazione sarebbe veramente preoccupante se ci trovassimo di fronte a uno sbalzo – tanto per intenderci – di 50 punti percentuali».



Ciò detto, valgano alcune considerazioni. «Per anni, si era detto che chi non si indebitava, sia a livello familiare che imprenditoriale, perseguisse un comportamento irrazionale. Decidere di non fare il passo più lungo della gamba, di non ingrandirsi e, magari, di non approdare in borsa, è stato a lungo reputato un atteggiamento negativo. Ma nel tempo si è dimostrato che chi lo aveva fatto senza estrema cognizione di causa ha proceduto verso il fallimento». Questo è vero a livello generale: «Sappiamo, tuttavia, che mentre l’indebitamento in piena crescita può facilmente segnalare una dinamica positiva, voglia di crescita e spirito d’iniziativa, in piena crisi, è spesso sinonimo di debolezza. Ma non sempre». Per esprimere un giudizio definitivo, infatti, il dato macroeconomico non è sufficiente. «Sarebbe opportuno verificare la situazione reale di ogni singola azienda. Se, infatti,  l’aumento dell’indebitamento con le banche è finalizzato a un progetto di investimento realistico e credibile, legato, per esempio, all’internazionalizzazione dell’area di business dell’impresa, si tratta di un segnale di coraggio e intrapresa, anche in un momento difficile».



Vale dunque anche il rovescio della medaglia: «Se l’indebitamento rappresenta una costrizione finalizzata al pagamento degli stipendi dei dipendenti o alle spese quotidiane quali le forniture o le bollette, questo è drammatico». Per inciso: «Si è soliti affermare che le banche, in questo periodo, hanno chiuso i rubinetti – nota il professore -; le imprese, quindi – mi domando – con chi si indebitano? Si tratta di una circostanza contraddittoria. A meno che non assumiamo che le banche, in realtà, non abbiano smesso di erogare il credito o, almeno che non abbiano smesso del tutto». Resta il fatto che se si parla di debiti non si può prescindere dal parlare dei crediti. Di quelli che le aziende, in particolare, vantano nei confronti dello Stato. 



«Garantire loro, finalmente, quanto gli spetta (ma anche agevolarle nelle esportazioni – mediante, magari, un coordinamento dei doversi istituti finalizzati al commercio estero e sbloccare realmente l’erogazione del credito) darebbe un contributo non indifferente alla ripresa». In tal senso, va segnalata una norma approvata di recente nel decreto sviluppo: «Le aziende fino a 2 milioni di fatturato dovranno versare l’imposta solo a fattura pagata. Non è molto ma, quanto meno, concede alla aziende una boccata d’ossigeno e lancia un messaggio positivo agli imprenditori, lasciandogli intendere che lo Stato non si è dimenticato di loro».    

 

(Paolo Nessi)