Il “polo del salotto” fra Matera e Santeramo al Colle, già fiore all’occhiello dei distretti industriali del Mezzogiorno “rischia di scomparire cedendo il passo alla disoccupazione e al sommerso”. Parole di Pasquale Natuzzi, contenute nell’inchiesta sui 65 distretti industriali italiani a cura de Il Sole 24 Ore. I numeri confermano l’allarme: da 500 aziende e 14 mila addetti con fatturato da 2,2 miliardi (il 55% del prodotto nazionale), si è passati ora a 146 Pmi con appena cinquemila dipendenti. Da dieci anni, da quando il distretto subisce il pressing della concorrenza cinese, si discute invano dell’accordo di programma che avrebbe dovuto attrarre investitori, ma nella sua ultima stesura (anche questa arenatasi a settembre 2011 per cause pressoché ignote) si era tramutato in una sorta di “compendio di ammortizzatori sociali”, mentre nulla si è fatto per colmare il gap delle infrastrutture.



Il caso ha voluto che quest’esempio, uno tra i tanti della perdita di appeal dell’Italia manifatturiera, riemergesse dalle nebbie della crisi nel giorno in cui il Bollettino della Bce rileva il “netto deterioramento della valutazione del rischio di credito delle imprese” misurato dai tassi attesi d’insolvenza, con un “incremento che è stato particolarmente pronunciato per le imprese italiane e piuttosto moderato per quelle olandesi e tedesche”. Non è una sorpresa. Le imprese di Paesi Bassi e Germania possono contare su prestiti in denaro molto più abbondanti (sia in euro che in dollari, merce quasi introvabile presso gli istituti italiani) e a condizioni assai più generose. Non solo. Le imprese made in Germany pagano al fisco venti punti percentuali in meno di quelle italiane. Tra un mese, infine, dovrebbero calare i contributi previdenziali a carico delle imprese e delle buste paga: non c’è da stupirsi visto che, complice, l’alto livello dell’occupazione, le casse sono gonfie di liquidità, oltre i limiti previsti dalla legge.



Non è una sorpresa, ma serve a ricordare all’opinione pubblica il “fil rouge” che corre tra sviluppo, tenuta del tessuto industriale e salute della finanza pubblica. Nei mesi passati, più per obbligo che per scelta, l’Italia ha concentrato i suoi sforzi sul contenimento del deficit pubblico. Non solo. La fuga di capitali internazionali dal Bel Paese ha costretto il sistema finanziario a ricorrere sempre più al mercato interno per finanziare la spesa pubblica.

I frutti di tanta austerità si cominciano a vedere: a giugno il saldo della bilancia commerciale è positivo e pari a 2,5 miliardi di euro. Si tratta dell’avanzo più alto dal luglio del 2005. Nei primi sei mesi dell’anno il saldo commerciale sostenuto dal forte avanzo nell’interscambio di prodotti non energetici (+32,6 miliardi) è prossimo al pareggio (-85 milioni). Ma c’è il rovescio della medaglia: il risultato non è tanto il frutto di un boom dell’export, anche se il comportamento del made in Italy sotto i cieli della recessione è più che dignitoso, bensì del brusco calo dei consumi interni che si accompagna a una deflazione severa che, non potendo agire sul fronte della svalutazione (come ai tempi della vecchia lira), si traduce in un calo dei salari, non solo reale ma anche nominale. È in questa cornice che si consuma il calo del Pil e, ancor più rilevante, il tonfo della produzione industriale, scivolata dell’8% ai valori assoluti del gennaio 2009: solo l’Italia, tra i Paesi del G8, non ha ancora assorbito i guasti della prima recessione.



Insomma, l’Italia rischia di perdere altri pezzi della sua industria. Nel resto dell’Occidente, torna di moda la politica industriale. Gli Usa e il Regno Unito, patrie del liberismo, registrano con grande entusiasmo la ripresa del manufacturing automobilistico. La tecnologia, regno della new economy, oggi viene esaltata per le possibilità offerte dalle nanotecnologie: piccole fabbriche, flessibili, tagliate per i processi economici post-fordisti. Al contrario, cresce la rabbia per i guru della rivoluzione digitale: troppo comodo produrre in Cina, far profitti in Usa ed Europa, e parcheggiare gli enormi profitti nei paradisi fiscali. Risibile la spiegazione che “in Usa non si possono produrre iPad od iPhone”, come sostiene Apple: a Smyrmna, Tennessee, gli operai , per lo più ex agricoltori bianchi e neri, maneggiano alla perfezione i robot della giapponese Nissan.

L’Italia, complice l’emergenza finanziaria e il grande lavorio dei cervelli attorno al tema di come aggredire il debito pregresso (formula morbida alla Grilli, formula choc all’Alfano, patrimoniale alla Capaldo o ipotesi mista e bipartisan benedetta da Amato-Bassanini), primo punto dell’agenda d’autunno, rischia di avviare in ritardo l’appuntamento con l’agenda dello sviluppo. Eppure, come ci insegna l’analisi di Mediobanca o l’esempio delle mille Natuzzi che soffrono lungo la Penisola, il lavoro e il profitto sono sottoposti a uno stress insostenibile. Le grandi imprese italiane ormai registrano l’80% del fatturato sui mercati internazionali. Ma si tratta per lo più di delocalizzazioni piuttosto che di export. Ovvero, senza il clamore suscitato da Fiat/Chrysler, lo spostamento del baricentro produttivo è già in corso. Non c’è da stupirsi: le imprese, così come il lavoro, vanno dove lo chiede il mercato. E l’Italia, vista la caduta della domanda delle famiglie, non è certo un’area propizia per le imprese che dirottano gli investimenti oltre frontiera.

Sarebbe necessario, data la situazione, attivare la domanda pubblica, ma il bilancio concede pochi margini. Non resta che aumentare l’appeal per gli investimenti in vista di un aumento della quota destinata all’export: l’Italia, a partire dalla Natuzzi spa, può vantare produttività, capacità commerciale e di innovazione di livello assoluto. Ma occorre ridurre i “gap” che rendono poco appetibile la Penisola come luogo per produrre per vendere su altri mercati.

Occorre, dunque, affrontare l’agenda Marchionne: o si premette la questione dei “diritti”, così cara a editori tanto sensibili alle battaglie di principio quanto sordi di fronte ai diritti dei singoli dipendenti, o quella della flessibilità produttiva, così com’è praticata in Usa o a Londra. Altrimenti aggredire il debito pubblico servirà a poco. Non più della vendita dell’argenteria di una famiglia nobile decaduta per far fronte ai debiti. Misura necessaria, purché poi si trovi un modo per realizzare reddito.