Un mito si aggira per l’economia neoclassica: la privatizzazione. Tutti credono che la via d’uscita a gran parte dei mali dell’economia e della società risieda nella fine della presenza dello Stato nell’economia. Esso, il mito, è tanto più potente per colpire l’animo degli incolti, ossia di quelli che dopo Popper e Hayek non hanno letto più nulla se non gli articolisti dei giornali mainstream che divulgano il pensiero comune che è cosa bene diversa dal buon senso. E sì che basterebbe conoscere la storia. Le vicende umane associate sono peggiorate dal punto di vista del benessere e della giustizia sociale nel secondo dopoguerra rispetto agli anni successivi alla prima guerra mondiale?



Tra le due guerre una terribile crisi si abbatté sul mondo e se ne uscì certo con un’altra guerra che distrusse un’immensa mole di capitale fisso oramai improduttivo e allocò milioni di disoccupati. Ma vi fu pure l‘inizio di quelle che poi chiamammo politiche keynesiane, ossia non di deficit spending come ora dice la vulgata, quanto, invece, di moltiplicatore degli investimenti attraverso l’incremento della domanda tanto privata quanto pubblica e una politica fiscale leggera e favorevole alla tassazione sul consumo piuttosto che sul lavoro e sull’impresa. Politiche che nella sostanza continuarono nel dopoguerra, con effetti così buoni che il mondo intero, e non solo Usa e Europa, rifiorirì. Solo la guerra fredda impedì che le politiche keynesiane assumessero quel ruolo di rivoluzione pacifica che potevano assumere.



Certo a esse si accompagnarono quelle che io chiamo le politiche del welfare comunitario e sussidiario e la polifonia delle forme d’impresa con il risorgere del movimento cooperativo internazionale, l’emergere di forme di proprietà neo-religiose, ossia a forma di economia morale, che in guisa completamente nuova reinventarono imprese in grado di massimizzare l’occupazione e non il profitto capitalistico, che appunto nell’impresa capitalistica non si limita a essere forma di regolazione, ma diviene forma di espropriazione che distrugge l’occupazione e l’investimento, come dimostra la crisi di questi anni.



La Germania e la Francia, distrutte dalla guerra e l’ Italia – non distrutta, ma produttrice di beni industriali con cui quelle due nazioni tornarono a nuova vita – furono beneficate dai finanziamenti del Piano Marshall e le istituzioni nate per salvare il capitale privato fallito durante la crisi furono conservate in tutto il mondo e diedero vita all’economia mista. Molti hanno chiamato quegli anni quelli del compromesso socialdemocratico e dello statalismo e hanno iniziato una spietata critica contro di essi. Ma si tratta di ideologie. Non vi è storico valente che non riconosca i vantaggi dell’economia mista, sia a fronte dell’economia a liberismo dispiegato, sia a fronte del collettivismo burocratico tipico del capitalismo monopolistico di Stato, che oltre alla crescita, come ha dimostrato l’esperienza sovietica e presto dimostrerà anche quella cinese, nega anche la poliarchia democratica. 

Non vi è storico che non possa non dirsi d’accordo con il Gurnal Myrdall – il premio Nobel maestro di Giorgio Fuà – autore del grande libro sulla povertà nei paesi asiatici e sugli strumenti per sfuggire a essa. Hirschaman seguirà la stessa strada sostenendo che sempre è possibile trovare o ritrovare una via per la crescita purché si abbandonino le ideologie. Oggi disponiamo di una grande esperienza storica e di un’immensa messe di strumenti tecnico-politici che possono far ripartire l’economia. Certo, non bisogna essere accecati dall’ideologia come lo furono la Thatcher, ma soprattutto Reagan, Blair e Clinton e gran parte del socialismo e del cattolicesimo cosiddetto democratico negli anni Novanta e inizio Duemila.

Tutti costoro abbracciarono la fede della deregolamentazione e della privatizzazione come una sorta di miracolosa medicina che doveva guarire il malato Le esperienze positive sono pochissime e nella maggior parte dei casi le privatizzazioni deindustrializzarono i paesi che se ne fecero portatori arricchendo gli amici dei privatizzatori. L’Argentina non ebbe più ferrovie. L’ Italia impianti chimici etilenici e siderurgici integrali degni di questo nome (la Taranto dell’Italsider era una delle fabbriche più sane al mondo prima che giungessero i privatizzatori che devono rendere conto alle trimestrali delle banche…). Poi venne, insomma, la controrivoluzione neoclassica e quindi neoliberista.

Il paravento ideologico fu la necessità di abbattere il debito pubblico. Lo si abbattè uccidendo gli agnelli che portavano il simbolo della crescita. Si sacrificarono intere generazioni all’assunto indimostrato che il debito pubblico fa male all’economia in ogni caso e sempre e per sempre, chiudendo gli occhi dinanzi ai casi storici più eclatanti. Si lessero libri pieni di cifre e privi di ogni conoscenza storico-generale e se ne fecero libretti rossi per gli incolti, lo ripeto. Esistono gli interessati nelle privatizzazioni, i quali creano società di consulenza ad hoc piene di ex primi ministri, di ex ministri, di ex deputati ed ex senatori, di giovani laureati in discipline incredibili ed evanescenti. Esistono anche i fanatici, tuttavia. La miscela tra i due è esplosiva.

In Italia si rischia di subire lo stesso miscelarsi distruttivo degli anni Novanta del Novecento dove banchieri centrali ignoranti e professorini fanatici crearono in Italia e all’estero lo tsunami della privatizzazione divoratrice di ricchezza. Ora si sentono le stesse litanie. Furtivamente girano per i vicoli dell’economia gli stessi figuri. Spesso hanno figliato. Spesso si sono ammogliati. Si riproducono e sempre aspirano al potere assoluto. Il debito va risanato privatizzando: non vendendo le inutili carabattole di uno Stato divoratore e sprecone, ma i gioielli di famiglia, come facemmo per esempio con la Nuova Pignone all’inizio degli anni Novanta del Novecento, Ciampi docet… Lucrosi affari per coloro che passeggiano nei vicoli bui e vincono premi costruiti ad hoc. Di nuovo la stessa musica.

Abbiamo ancora un pugno di imprese sane, solide, con un grande futuro dinanzi a sé che sono in parte o in toto possedute dallo Stato. Non vanno assolutamente privatizzate in un contesto delle transazioni che l’oligopolio finanziario mondiale ha configurato come un contesto di svendita e non di vendita, con gli stati con il coltello alla gola.

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