Da tempo è noto come la nuova frontiera dell’export occidentale siano i mercati dei Paesi emergenti. Sopravvivono, in genere, solo le aziende che riescono a esportare i propri prodotti in Cina, India o Brasile. Anche per l’Italia vale lo stesso ragionamento. Che, secondo una ricerca di KPMG, è sempre più applicabile anche e soprattutto ai beni di lusso. Secondo il Network globale di società di servizi professionali, in particolare, nel 2015 il gigante asiatico diventerà il primo acquirente di questo genere di prodotti. Salvatore Testa, Direttore del Major Moda e Design delle LS Management dell’Università Bocconi e consigliere esecutivo del Milano Fashion Institute, illustra a ilSussidiario.net le caratteristiche del trend.«Per quanto riguarda il mercato del lusso, va detto che il Made in Italy sta venendo “salvato” non solo dalla Cina, ma anche dal Brasile, dalla Russia, dagli Emirati Arabi. I mercati tradizionali, ovvero quello europeo e quello americano, sono, invece, in netta difficoltà». In ogni caso, tra tutti, il mercato cinese è indubbiamente il più prospero. «Per tassi di crescita, capacità di reddito e interesse specifico nei confronti dei marchi italiani, è indubbiamente quello trainante». Per tre marchi, soprattutto: «Zegna, Ferragamo e Tod’s. Si tratta di una triade di brand che ha fatto, gli anni scorsi, da pioniere alla penetrazione nel mercato asiatico. Di recente, stanno assumendo sempre più importanza anche Prada, Ferrari e Bulgari».



Si diceva che anche le aziende che operano in altri settori se vogliono sopravvivere devono esportare. «La differenza principale consiste nel fatto che il tasso di crescita maggiore si ravvisa proprio nel lusso. E, in ogni caso, solamente i prodotti di fascia alta sono in grado di approdare con successo nei mercati esteri». Per intenderci: «i prodotti di fascia bassa (non brandizzati, di largo consumo e a basso costo) o quelli di fascia media (brandizzati, di qualità,  a costi ancora accessibili, ma senza la pretesa di essere esclusivi) non possono pensare di competere a livello internazionale a livello di prezzi; non dispongono, infatti, né dei volumi, né delle strutture di costi relativamente paragonabili  a quelli cinesi».  Tra una tipologia di prodotto e l’altra, c’è un’altra differenza enorme. E’ quella relativa alla capacità di internazionalizzarsi. «Tutti i marchi importanti rappresentano aziende grosse, hanno a disposizione una propria rete retail (sono in grado, quindi, di avvalersi di una struttura distributiva propria) e facilmente possono reperire personale che conosca la lingua o le leggi del paese dove intendono sbarcare».



Per i piccoli è tutta un’altra storia. «Oltre a non disporre delle risorse suddette, l’azienda piccola, anche laddove rappresenti un’eccellenza nel proprio campo – per esempio, il biomedicale o l’elettromeccanico – non ha la possibilità di dar vita a negozi monomarca, la forma di commercializzazione preferibile per approdare all’estero». 

Soluzioni da adottare, ce ne sarebbero: «Sarebbe opportuno che i piccoli si alleassero, associandosi ad altri marchi con prodotti, magari, complementari». In tal senso, lo Stato potrebbe svolgere un ruolo importante: «Sarebbe necessario dar vita a un effettivo coordinamento dei vari istituti preposti al commercio estero e rendere efficaci quelle strutture regionali che, in passato, hanno drenato inutilmente risorse pubbliche. Detto questo, occorre riconoscere che l’imprenditore medio-piccolo italiano fa ancora troppa fatica a condividere un progetto con i propri concorrenti. L’idea di riuscire a fare tutto da soli è ancora quella dominante. Incentivi e forme di finanziamento, anche per lo sbarco in Cina, già esistono. Ma se non ci sono aziende che si associano e progetti concreti, queste opportunità restano lettera morta».



In conclusione, secondo il professore, «nel mondo aziendale dovrebbe esistere la stessa cultura del mondo delle cooperative. Pensi al Parmigiano Reggiano: è nato una miriade di produttori, anche piccolissimi, che hanno avuto la capacità di creare marchi collettivi che esportano oggi in tutto il mondo».

 

(Paolo Nessi)

 

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