Da dieci anni lavora nella Silicon Valley ai massimi livelli delle multinazionali americane dell’hi-tech. Marco Marinucci, italiano attivo in Google nel campo dello strategic partnership development, ha creato una fondazione non profit con sede a San Francisco, chiamata Mind the Bridge Foundation. Il suo scopo è aiutare i giovani italiani a dare vita a delle start-up nel campo dell’hi-tech, superando gli ostacoli di diversa natura che, a differenza di quanto accade negli Usa, incontrano nel nostro Paese.



Di che cosa si occupa la sua “creatura”, la Mind the Bridge Foundation.

Mind the Bridge è una fondazione californiana no profit. L’ho creata perché mi sono convinto del fatto che mancassero dei modelli per ispirare i giovani italiani che sono privi di opportunità per passare dall’idea all’impresa. E’ un tentativo di dare una risposta alle mancanze che io stesso ho incontrato nel mio percorso professionale. Lavoro all’estero da 15 anni e mi trovo nella Silicon Valley in una società come Google, che è da diverso tempo il centro dell’innovazione.



Come le è venuta l’idea di Mind the Bridge?

La mia intuizione è stata che la mia fortuna potesse essere replicata con dei modelli utilizzabili in modo standardizzato. Mind the Bridge filtra le idee più interessanti create dai ragazzi italiani, cui offriamo una “supervisione adulta” per cercare di aiutarli nel processo di sviluppo di una start-up. Tramite una rete di mentori supportiamo il gruppo o la persona proponente, organizzando una serie di eventi anche in Italia.

In che senso l’innovazione, come ha detto lei, può essere “standardizzata”?

Nella Silicon Valley esiste una figura chiamata imprenditore seriale, che consiste nel trasformare un concetto in una società e farle muovere i primi passi. Si concentra quindi su capacità come la creatività e la possibilità di lavorare contemporaneamente su molte opzioni diverse.



Quali sono le differenze nella concezione degli imprenditori italiani e americani?

In Italia l’azienda tende a essere un’estensione della personalità dell’imprenditore. Quest’ultimo crea qualcosa che è così interconnesso con se stesso, che non vede più i confini tra la società cui ha dato vita e se stesso come individuo. Ciò è problematico sotto diversi punti di vista. Al contrario, una società deve avere flessibilità per crescere in modo dinamico e aperto. Occorrerebbe anche in Italia la capacità di fare partire progetti nuovi per poi slegarsi da essi quattro o cinque anni dopo che sono stati avviati. In Silicon Valley ciò è normale, anche grazie alla figura dell’imprenditore seriale la cui capacità consiste in un atto creativo, quello di dare vita a una società che svilupperà valore, ricchezza e posti di lavoro.

Che cosa consiglia ai giovani italiani che desiderano lavorare nel campo dell’hi-tech?

In primo luogo studiare l’inglese fin da subito. Inoltre, confrontarsi con realtà diverse dall’Italia. Per me trasferirmi in Silicon Valley ha significato davvero aprire gli occhi, dopo essere rimasto per anni in contesti le cui dinamiche sembravano le uniche esistenti. Quando esci dal guscio e ti confronti con realtà diverse, come Francia, Spagna e Stati Uniti, riesci a prendere decisioni con una visione diversa rispetto al tuo futuro. Confrontarsi il più possibile con l’estero è quindi una dimensione assolutamente necessaria, anche se probabilmente non sufficiente.

 

Ritornerebbe in Italia dopo avere lavorato in Silicon Valley?

 

Mi trovo a diecimila chilometri di distanza dal mio Paese, ma trascorro gran parte del mio tempo a guardare l’Italia. Un po’ perché è diventata una sorta di missione che mi sento sotto la pelle, un po’ perché è più facile guardare l’Italia da fuori: è come vedere la Terra dalla Luna e ogni cosa sembra perfettamente tonda. E’ anche un’occasione per essere più oggettivo nei confronti dei potenziali punti di sviluppo e delle opportunità che si presentano. Oggi come oggi vivere in Italia o in un altro Paese mi sembra del resto un fatto abbastanza relativo. San Francisco è il luogo dove sono cresciute le mie figlie, e se si riesce a crearsi un contesto positivo ci si vive bene. Ho il privilegio di essere cresciuto in una cultura familiare forte come quella italiana, e nello stesso tempo con tutte le facilitazioni di cui gode chi si trova in California. Mi ritengo quindi l’uomo più fortunato, perché riesco a cogliere il meglio dei due mondi.

 

(Pietro Vernizzi)