La produttività italiana, negli ultimi anni, ha subito un profondo declino. Uno studio curato da Carlo Dell’Arringa, docente presso l’Università Cattolica di Economia dell’impresa, che sarà presentato al Cnel, evidenzia come siamo passati dalla vetta più alta del podio a essere fanalino di coda dei Paesi industrializzati. Nel decennio 1970-1979 il valore prodotto per ora lavorata cresceva, in Italia, del 6,5% annuo; in Giappone del 5,4%, in Olanda del 5,2%, in Francia e Germania del 4%, negli Usa del 2,7%; poi, il trend si è radicalmente invertito. Nell’ultimo decennio, siamo crollati a una media dello 0,4% annuo, surclassati da Germania (1,8%), Francia (2,5%), Olanda (2,8%), Regno Unito (3%) e perfino dalla Spagna (1,8%). Va da sé che tale dinamica si riflette negativamente su fondamentali della nostra economia. A partire, innanzitutto, dall’andamento del mercato occupazionale. IlSussidiario.net ha chiesto a Giovanni Marseguerra, professore di Economia politica presso la Cattolica di Milano, come siamo giunti a questa situazione. «Il rapporto – afferma – conferma un problema noto da tempo ed esemplificato, in particolare, dal fatto che da anni continua a crescere il cosiddetto Clup, il Costo del lavoro per unità di prodotto. Ovvero, rispetto ai nostri competitor – in primis, la Germania – a parità di costo del lavoro (che, di per sé, negli ultimi anni, non è particolarmente cresciuto), il valore del prodotto realizzato è inferiore».
Le cause della contingenza vanno analizzate su due fronti. Partiamo dai problemi interni alle imprese. «Con il 95% delle aziende che dispongono di meno di 10 addetti, il nostro sistema produttivo è incredibilmente frazionato. E il valore aggiunto per addetto, nell’impresa piccola, è inferiore a quello dell’impresa media e ancor più inferiore rispetto a quella grande». Non solo: «Le nostre piccole imprese fanno una straordinaria fatica a compiere investimenti. Specialmente, in capitale umano e in innovazione. E, senza innovazione, non si riescono a individuare nuovi mercati in cui esportare le merci. D’altro canto, la stragrande maggioranza delle Pmi è a conduzione familiare mentre, negli altri Paesi, il tasso di manager esterni è molto più alto. Sanno bene, infatti, che l’imprenditorialità non è un fattore ereditario». Si potrebbe obiettare che, storicamente, in Italia, è sempre stato così. «E’ vero – replica il professore – ma un tempo, non avevamo l’euro. Potevamo, quindi, realizzare le cosiddette svalutazioni competitive. Allora, inoltre, il mercato interno contava molto più di adesso. Con la globalizzazione, la competizione si è spostata su mercati stranieri sui quali, spesso, sempre in ragione delle scarse dimensioni, le imprese italiane faticano a sbarcare». Le regole del nostro mercato del lavoro complicano ulteriormente lo scenario. «L’altissima precarietà sfavorisce l’investimento in capitale umano». L’elenco, purtroppo, non è ancora finito. Anzi, il grosso deve ancora venire. «Sul fronte dei fattori esterni alle aziende, e legati al contesto italiano, si potrebbe procedere all’infinito».
Elenchiamone alcuni: «L’eccessiva e abnorme tassazione, che produce effetti distorsivi, disincentivando a far bene; l’elevato costo dell’energia; la giustizia, con i suoi tempi lunghissimi; l’amministrazione, ancora estremamente arretrata e inefficace; i ritardi nei pagamenti della P.A.». In tutto ciò, i vari governi avvicendatisi negli anni, non hanno di certo aiutato. «Benché le Pmi costituiscano all’incirca il 40% della ricchezza nazionale, qualsivoglia provvedimento le ha sempre snobbate. Considerando, tuttavia, che sovente gli interventi legislativi peggiorano la situazione, sarebbe già tanto se, quantomeno, i governi si limitassero a non far danni».
(Paolo Nessi)