Per una volta le più nefaste previsioni sono state smentite. L’export italiano, a luglio, ha registrato i dati migliori dal 1998. Il saldo commerciale rispetto all’anno precedente è stato pari a +4,5 miliardi di euro. Al netto del costo dell’energia, sarebbe stato addirittura di 9,3. Immancabilmente, tuttavia, la buona notizia è accompagnata da una cattiva. Sono crollate le importazioni. Rispetto all’anno precedente, hanno subito, infatti, un calo del 4,3%. IlSussidiario.net ha chiesto a Paolo Preti, direttore del master delle piccole imprese dello Sda Bocconi come interpretare questi dati. «Di per sé – spiega -, ovviamente, i numeri del commercio estero riflettono una dinamica positiva. Le nostre imprese, cioè, sono state in grado di adeguarsi alle regole imposte dai cambiamenti dell’economia mondiale. Ove, spesso, resiste unicamente chi riesce ad approdare a lidi internazionali mentre, fino a poco tempo fa, era ancora possibile, in buona parte, affidarsi al mercato interno». E sono riuscite a farlo nonostante condizioni fisiologiche sovente sfavorevoli, e condizioni esterne, generate dai governi che si sono avvicendati negli anni, talora penalizzanti: «Il tessuto imprenditoriale italiano è riuscito a comprendere in tempi rapidi dove tirava il vento, e ad adeguarsi al mutamento: è stato in grado di aumentare le esportazioni benché le ridotte dimensioni abbiano prodotto spesso non pochi ostacoli. Si pensi, semplicemente, a quanto può essere difficile per una piccola azienda disporre di risorse umane che conoscano la lingua e sappiamo districarsi tra le leggi del Paese in cui si esporta».



Dicevamo delle condizioni esterne e delle mancanze del governo. «Se anche in passato le piccole e medie imprese hanno sempre rappresentato la “Cenerentola” di qualsivoglia esecutivo, oggi notiamo l’accentuarsi del gap tra l’attenzione rivolta all’estero e quella verso casa nostra». Ovvero, «diamo atto alla compagine governativa di aver saputo recuperare, sullo scacchiere internazionale, una certa autorevolezza. Tuttavia, sul fronte interno, assistiamo a un’attenzione decisamente inferiore: non a caso, occupazione e redditi sono calati, mentre la spesa pubblica non è stata adeguatamente contenuta, ma, in compenso, si è registrato un forte incremento della pressione fiscale». Va anche rilevato il fatto che, in passato, secondo Preti, non erano pochi quelli che suggerivano di disinvestire dal manifatturiero a favore di una presunta modernizzazione del sistema: «Alla luce dei dati sull’export, abbandonare la nostra piccola e media industria avrebbe determinato l’esplosione degli effetti della crisi nel loro grado massimo. I numeri sulla disoccupazione, sul potere d’acquisto delle famiglie, o, più in generale, sui fondamentali della nostra economia, sarebbero decisamente più allarmanti. Tanto più che, se la nostre presenza negli altri Paesi fosse stata inferiore, non avremmo avuto di certo modo di riequilibrare il sistema attraverso il mercato interno, pressoché desertificato». E perché il nostro mercato versa in tali condizioni? «Anche in tal caso, si registra un’azione del governo del tutto insufficiente rispetto alla necessità di stimolare la domanda interna». 



Ciò detto, il da farsi è, o dovrebbe essere, evidente: «Il fatto che le Pmi riescano resistere in mezzo a mille difficoltà, lascia intendere come rappresentino quel modello originale di sviluppo sul quale puntare per la ripresa». E allora, il governo dovrebbe muoversi in tal senso. «Attraverso leve fiscali in grado di attirare investimenti, semplificando l’apparato burocratico e amministrativo e dando segnale concreti agli imprenditori, in modo da alimentare in loro la percezione di uno Stato che gli è vicino; il che, incrementerebbe la loro fiducia e, con la fiducia, la spinta a investire e innovare». Una qualche risposta in tal senso, si spera arrivi a breve: «Attendiamo con ansia di vedere cosa conterrà il pacchetto per la crescita annunciato dal ministro Passera».



 

(Paolo Nessi)

 

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