Che fine ha fatto il riordino degli incentivi alle imprese? Si ricorderà che, per metter mano alla materia, si era scomodato addirittura Francesco Giavazzi, cui era stato conferito l’incarico dal premier Monti di super-commissario con il compito di individuare i criteri attraverso cui ridurli, accorparli e trasformarli in altro. Qualcosa è stato fatto e il ministero dell’Economia aveva partorito un fondo unico da 600 milioni di euro per il primo anno, destinato, in particolare,  a quelle aziende con serie prospettive di ricerca e sviluppo, internazionalizzazione e aumento della produttività. Peccato che tutto ciò sia espresso in una legge alla quale mancano i decreti attuativi. E’ destinato a restare tutto uguale? Lo abbiamo chiesto a Marco Cobianchi, esperto di aiuti pubblici alle imprese e autore di Mani Bucate.



Si faranno mai questi decreti attuativi?

No. Perché, da una parte il tema è estremamente complesso, e richiede attenzione e tempo; dall’altra, perché sono gli stessi politici a volere continuare a destinare sussidi alle imprese. Certo, ci sono anche imprese che li chiedono, ma trovano sempre un terreno estremamente fertile.



Perché dice questo?

Se il politico o, più in generale, lo Stato, consente all’azienda di godere di aiuti, questa è meno libera. Per intenderci, lo stabilimento di Melfi della Fiat è rimasto aperto per decenni non perché fosse produttivo, ma perché riceveva sussidi dallo Stato.

Lei come valuta tutto ciò?

Deleterio. Si è prodotta un’economia pianificata, ove è il potere politico a decidere cosa va fatto. Inoltre, in questo modo, le imprese non investono come vorrebbero e in ciò di cui avrebbero realmente bisogno per essere produttive.

Crede, realmente, in ogni caso, che le imprese potrebbero sopravvivere senza sussidi?



Non dimentichiamo che le aziende che sopravvivono grazie a essi sono, in genere, le peggiori. Alcune delle migliori che abbiamo in Italia, quali Luxotica, Technogym o  Brembo, tante per citarne alcune, non ricevono sussidi. In sostanza, le peggiori fanno concorrenza alle migliori con i soldi dello Stato. Si tratta di una distorsione evidente.

Oltre che una distorsione, si rischia anche di potenziare la criminalità organizzata?

Senz’ombra di dubbio. Decine di inchieste giudiziarie hanno dimostrato che spessissimo gli incentivi vanno alle aziende della mafia, quelle che possono garantire uno scambio politico. E’ certificato, ad esempio, che buona parte degli incentivi all’industria dell’energia verde finiscano in mano alla criminalità organizzata. Famoso è il caso delle pale eoliche in mano alla mafia siciliana.

 

Il progetto di questo Governo, almeno astrattamente, ha ragion d’essere?

 

Solo astrattamente. Se un’azienda ha un progetto realmente innovativo, trova in altro modo i soldi. Si tratta di un altro modo attraverso cui il potere politico mette le mani dentro un sistema che avrebbe bisogno di ben altro.

 

Di cosa?

 

Tutti le aziende sane non chiedono sussidi, ma meno tasse. L’unico processo necessario non consiste nel ridurre gli incentivi o nel risistemarli, quanto nel ridurre l’imposizione fiscale. E non a casaccio, ma con un obiettivo ben preciso. Quello di favorire gli investimenti, nazionali e internazionali. Serve, in sostanza, abolire l’Irap. Temo, tuttavia, che per le suddette ragioni, i politici non accetteranno mai uno scambio del genere. Come se non bastasse, se si dovessero limitare i sussidi, il corpo sociale costituito da sindacati e autonomie locali si rivolterebbe, affermando che lo Stato non è attento alle esigenze del territorio e via dicendo. Prevedo, quindi, addirittura, che gli incentivi aumenteranno.

 

In questa fase, tuttavia, il mercato è connotato da una serie di distorsioni, quali la stretta creditizia. Non crede che, fino a quando il sistema non si sarà normalizzato, anche alcune aziende sane potrebbero avere bisogno di incentivi per sopravvivere?

 

L’azienda sana, che presenta un progetto realmente innovativo e dotato di prospettiva, in genere, i soldi dalle banche li riceve. Laddove le stesse banche avessero effettivamente le mani legate dai vincoli, per esempio, di Basilea, resta il fatto che tali aziende continuerebbero a chiedere non tanto incentivi, quanto un’imposizione fiscale più bassa. 

 

(Paolo Nessi)