Per ogni minuscolo passo avanti, cento ne sono stati fatti indietro. L’Ilva di Taranto è ormai, sul fronte sociale, una polveriera. Ed è come se qualcuno non vedesse l’ora di innescare la miccia. Non si spiega altrimenti la decisione – non si comprende bene di chi – di sigillare i varchi saldando anelli e montando pannelli alle porte «impedendo ai lavoratori – sottolinea la Cisl – in caso di evacuazione dallo stabilimento di avere la possibilità di accedere a una rapida via di fuga». E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per questo è stato proclamato uno sciopero ad oltranza dei lavoratori dell’Ilva, a partire dalle 14 di ieri, da parte della Fim-Cisl di Taranto; abbiamo parlato proprio con il suo segretario, Mimmo Panarelli, per far luce sulla situazione.



Cos’è successo, ieri?

Guardi, sono giunto in fabbrica, dopo la segnalazione di alcune persone, alle 14. La direzione era sigillata, non si poteva entrare. Al che, mi sono spostato alla portineria d’ingresso, al varco dove entrano i lavoratori. Era tutto chiuso e sbarrato. Ho chiesto al vigilante di aprire. Mi ha detto che non poteva. Ho chiamato la direzione di stabilimento e preteso l’immediata apertura dei cancelli.



Cosa le hanno risposto?

Le lamiere sulle portineria B, ancora ci sono. I cancelli alla portineria A, invece, sono stati aperti.

Perché si arrivati a tanto?

Non ne abbiamo la più pallida idea. Qui non si riesce più a comunicare con nessuno. Per questo, abbiamo chiesto, contestualmente all’annuncio dello  sciopero, che il presidente dell’azienda si rechi qui di persona. E ci spieghi se intende mantenere o meno gli impegni assunti nei confronti del governo o se intende fare una passo indietro. Perché, ad esempio, l’altoforno 1 è fermo dai primi di dicembre, nonostante sia pronto per essere messo a norma? E perché non è stato messo a norma? Che fine ha fatto il piano industriale finalizzato a realizzare quanto prescritto rispetto alle aree che sono già state dissequestrate?



Ci sono state delle manifestazioni, un incontro con il governo, e l’emanazione di un decreto che avrebbe dovuto sbloccare la situazione. Cos’è successo, invece?

Il decreto, oltretutto, è stato tradotto in legge. Dovrebbe valere per tutti i cittadini italiani ma, evidentemente, non per la Procura. Che lo ha ritenuto incostituzionale, e si sta ostinando a non rimuovere i sigilli dai prodotti finiti a lavorati.  

Com’è il clima in fabbrica?

La situazione è indescrivibile in termini di tensione. Dire che i lavoratori sono preoccupati è un eufemismo. Con i loro occhi assistono a qualcosa che si sta sempre più allontanando e che, forse, potrebbero perdere per sempre. E, in un territorio dove le famiglie sopravvivono grazie allo stipendio di un solo componente, perdere la propria fonte di reddito rappresenta una vera e propria tragedia. 

Rischiano tutti di perdere il lavoro?

Attualmente, ci sono 1600 lavoratori coperti da cassa integrazione ordinaria, più altri 620, quelli colpiti dal tornado dal 28 di novembre, anch’essi in cassa integrazione ordinaria; e, infine, 700 lavoratori senza alcune certezza di reddito, per i quali la deroga alla cassa integrazione ancora non è stata concessa. Non pariamo, poi, dell’indotto.

La disperazione potrebbe determinare problemi di sicurezza e disordine pubblico?

Non direi. Sono arrabbiati, ma hanno appreso con soddisfazione la nostra decisione indire lo sciopero. E la nostra posizione, volta a pretendere dal presidente dell’Ilva quali sono le sue reali intenzioni. 

 

(Paolo Nessi)

 

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