Mentre a Londra finisce la latitanza di Fabio Riva, vicepresidente dell’omonimo gruppo industriale cui fa capo l’Ilva di Taranto (ricercato dal 26 novembre 2012), all’interno dei confini italiani continua la disperata ricerca di una soluzione che possa far concludere nel migliore dei modi la spinosa vicenda dell’acciaieria pugliese. La recente via proposta dal leader di Sel Nichi Vendola prevede di vincolare lo sblocco dei materiali al risanamento ambientale e al pagamento degli stipendi dei lavoratori, idea che piace anche a Pier Luigi Bersani: “Credo che il governo farebbe bene ad esplorare l’idea. E’ indispensabile mettere la vicenda in situazione di certezza”, ha detto il segretario Pd. La vedono però diversamente i sindacati coinvolti, uno su tutti la Fiom: “Serve che in caso di dissequestro si proceda per le merci, ma non per i soldi che devono essere finalizzati a stipendi e investimenti”, ha detto di recente Maurizio Landini, tornato poi ad affermare che “se si vuol dare un futuro all’impresa, serve un intervento diretto dello Stato molto più veloce di quello previsto nel decreto. Lo Stato ci deve mettere la faccia e anche gli imprenditori si devono far sentire”. Sulla stessa linea anche Fabrizio Tomaselli dell’Esecutivo nazionale Usb, secondo cui è ormai necessaria “la nazionalizzazione dell’ Ilva, senza alcun indennizzo ai Riva, che dovrebbero invece rispondere penalmente e civilmente dei danni prodotti ai lavoratori e alla città”. Abbiamo chiesto un commento a Gianmaria Martini, docente di Economia politica presso la facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Bergamo.



Professore, come giudica i recenti sviluppi sul caso Ilva?

E’ ormai evidente che quello creatosi a Taranto è un problema sociale molto rilevante. L’importanza dell’Ilva, a livello nazionale e non solo, è ormai sotto gli occhi di tutti, eppure a seguito del giusto intervento della magistratura, per evitare ulteriori disastrosi impatti ambientali, è sorto un braccio di ferro con il governo che di fatto non ha portato ad alcuna soluzione. Con il risultato che il problema sociale, rimanendo sullo sfondo, non è stato sostanzialmente affrontato.



Cosa fare quindi?

Come sappiamo l’azienda coinvolge tantissimi lavoratori e ancora possiede una certa capacità produttiva, ma nello stesso tempo deve fare i conti con il sequestro dei prodotti finiti e semilavorati tuttora giacenti sulle banchine del porto (dal valore di un miliardo di euro circa, ndr) e con gli ulteriori impatti ambientali che tale attività comporta. Arrivati a questo punto, francamente non so quanto il privato possa continuare o sia in grado di gestire una simile emergenza sociale e industriale: da una parte bisogna garantire l’occupazione, dall’altra sostenere tutte le spese e i costi per ridurre le conseguenze ambientali della produzione.



Crede quindi che lo Stato debba necessariamente intervenire?

Credo proprio di sì. Pur nella ristrettezza del bilancio pubblico, lo Stato ha comunque risorse a disposizione con cui immaginare un intervento. Certo, attingere da una parte significa di fatto tagliare da un’altra, ma credo si tratti di un’operazione assolutamente attuabile.

In che modo si dovrebbe iniziare?

Innanzitutto analizzando nel dettaglio la situazione e capire il miglior modo per intervenire, se caricandosi interamente il caso Ilva sulle proprie spalle o se collaborare con il privato, coinvolgendo in parte l’azienda stessa, per giungere a una soluzione condivisa. Personalmente credo che per una città come Taranto, ma anche per tutto il Paese, questo sia ormai diventato un problema talmente rilevante da non poter essere più evitato o prorogato.

Cosa pensa della proposta di Vendola?

L’idea è chiara e in parte condivisibile, però mi chiedo: chi gestirebbe le risorse ottenute dalla commercializzazione dei prodotti?

 

Intende dire che un intervento dello Stato sia comunque necessario?

 

Esatto, anche un’operazione di questo tipo, di per sé ipotizzabile, dovrebbe comunque essere diretta dal settore pubblico, quindi non facciamo altro che tornare a quanto dicevamo in precedenza. In tutti i casi è ormai chiaro che lo Stato deve entrare in gioco e fare la sua parte.

 

A cosa porterebbe un’eventuale nazionalizzazione dell’Ilva?

 

Lo Stato si farebbe carico, interamente o in gran parte, di tutti gli interventi necessari per rimettere in piedi l’azienda e per garantire la sicurezza dei cittadini e dei lavoratori. Però, come ho detto, è la criticità della problematica sociale a rappresentare attualmente la maggiore priorità, da considerare quindi immediatamente nel caso in cui si scegliesse di intervenire. Dico questo perché la ricerca della sostenibilità non può essere basata soltanto sui conti aziendali in ordine o sul recupero di una certa profittabilità, perché altrimenti ogni altro problema ambientale o di salute della popolazione ricadrà ancora una volta su tutti noi, riazzerando di fatto ogni intervento ipotizzato.

 

Crede che quella descritta finora sia un’ipotesi realmente immaginabile?

 

Fino a oggi abbiamo assistito unicamente a interventi d’urgenza, certamente utili, con l’obiettivo di rimettere l’azienda in condizione di operare e di riprendere l’attività produttiva, ma ancora non sappiamo con certezza se i programmi di abbattimento dei fattori inquinanti sono realmente adeguati e se verranno attuati al più presto. Una vera decisione, quindi, ancora non è stata presa, ma credo sia ormai arrivato il momento di intervenire. 

 

(Claudio Perlini)

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