Il più qualificante tra i punti contenuti nel documento programmatico di Confindustria per uscire dalla crisi è, indubbiamente, il taglio dell’Irap su tutti i settori in cui grava sull’occupazione. La misura, posta in essere contestualmente ad altri imponenti interventi (aumento di 40 ore lavorative annue, +50% di investimenti in infrastrutture, immediato pagamento di 48 miliardi di debiti commerciali dovuti alle aziende da parte lo Stato, modifiche alla flessibilità in entrata della riforma Fornero) determinerebbe effetti colossali: un aumento dei 12% del Pil in 5 anni, e  1,7 milioni di posti di lavoro in più entro il 2018. Abbiamo chiesto a Giancarlo Pola, professore di Finanza degli Enti locali presso l’Università di Ferrara, come vede l’abolizione dell’Irap. Sì, perché l’imposta tanto odiata dagli imprenditori, è una sua creatura.



Perché si rese necessaria una tassa del genere?

Le Regioni, dagli anni ’70, iniziarono a sviluppare le proprie competenze. Con l’ingresso della sanità nei propri bilanci, il problema della sostenibilità e della copertura di queste spese si fece via via sempre più impellente e si trascinò per una decina d’anni, fino almeno al ‘88-89. A quell’epoca, io già da tempo studiavo il problema e mi fu affidato l’incarico di procedere all’ideazione di una soluzione.



Come procedette?

Partendo dalla comparazione con la Francia, la Germania e l’Austria, dove imposte simili erano già state introdotte da tempo, lavorai sull’ipotesi di contemperare i bisogni fiscali delle Regioni con un’altra esigenza dell’epoca: quella di semplificare il quadro tributario per le imprese, sulle quali gravavano almeno 6 o 7 imposte diverse, ritenute particolarmente odiose. Esse comprendevano anche i contributi sociali, che pesavano sul costo del lavoro privato. Pensai di riunirle tutte in un unico tributo, il cui gettito sarebbe stato equivalente a quello derivante della loro sommatoria. E di destinarne interamente il ricavo alle Regioni e, in particolare, alla sanità (oggi finanziata al 40% proprio dall’Irap).



Poi, cosa accadde?

L’idea penetrò negli ambienti governativi fino a quando non proposi a Berlusconi e a Tremonti, nel ’94, di inserirla nel loro “Libro bianco”. Preferirono di no.

Quindi?

La proposta venne discussa nella Commissione di studio per la riforma del sistema tributario, costituita, durante il governo Dini, nel 16 giugno del ‘95, dall’allora ministro delle Finanze Augusto Fantozzi e presieduta dal professore Franco Gallo (attualmente vicepresidente della Corte Costituzionale). L’organismo discusse, tra le altre cose, se comprendere nella base imponibile solamente le spese per il costo del lavoro o anche gli ammortamenti. Si decise di escludere gli ammortamenti. Pochi anni dopo, nel ’97, durante il primo governo Prodi, il ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, mi chiamò, comunicandomi che era intenzionato a porre in essere il mio progetto. Lo fece partire dal primo gennaio del ’98, applicando l’imposta alle nuove basi imponibili.  

 

Oggi la manterebbe in vita?

 

No, oggi andrebbe abolita. Nel frattempo, gli altri paesi lo hanno fatto. Quantomeno, le Germania ha abolito la parte relativa ai salari, lasciando quella legata ai profitti, mentre la Francia l’ha abolita completamente, sostituendola con un’imposta complessa legata alle aliquote e alle basi imponibili territoriali.

 

Perché ha cambiato idea?

 

Ai tempi, quando fu introdotta, andava incontro a esigenze di imprese che, tutto sommato, stavano ancora bene. Oggi, rappresenta per esse un peso insopportabile per la loro competitività. In questa fase di crisi, la necessità di alleviare il peso tributario sulla produttività italiana è diventata prioritaria.

 

Confindustria intende finanziare l’abolizione con l’aumento dell’Iva e delle imposte sulle rendite finanziarie.

Sull’aumento delle imposte sulle rendite, non si può che essere d’accordo. L’incremento dell’Iva, invece, presumibilmente produrrebbe non pochi mugugni, siccome l’aliquota è già prossima ai massimi livelli europei. Oltretutto, non è escluso che si possa determinare un ulteriore flessione dei consumi. E’ pur vero che l’Irap privata vale attorno ai 20 miliardi di euro. 15 miliardi si potrebbero recuperare con l’aumento di un solo punto d’Iva, gli altri 5 delle rendite finanziarie. Resta da capire se si intenderà abolirla anche sulle imprese pubbliche. In tal caso, si parlerebbe di un mancato gettito complessivo di circa 33 miliardi di euro.

 

Si potrebbe ipotizzare che il gettito perduto nell’immediato futuro possa essere compensato, sul medio-lungo termine, da un aumento di produttività

 

Resta il fatto che, nell’anno immediatamente successivo all’abolizione, ci sarebbe un buco di 20 miliardi da colmare (o di 33). Probabilmente non resterebbe che concordare con l’Europa la possibilità di operare in deficit, aumentando la spesa pubblica per sanare la perdita.

 

Posto che la misura sia implementabile, che effetti produrrebbe in termine di Pil?

 

Non si può escludere un aumento di produttività del 10% e un incremento del Pil compreso tra il 2% e il 3%. 

 

(Paolo Nessi)