Non può dirsi ancora conclusa la battaglia legale sul futuro dell’Ilva. Il procuratore di Taranto Francesco Sebastio oltre a descrivere il braccio di ferro tra Magistrati, gruppo del polo siderurgico pugliese e Governo, iniziato il 26 luglio con il sequestro dell’impianto, dichiara che “non ci possono essere compromessi e comunque ogni valutazione va fatta seguendo le norme e non per opportunità e che allo stato attuale l’azienda può continuare la sua attività”. E dunque, quali scenari si prospettano? IlSussidiario.net ha analizzato la situazione con Giuseppe Cappiello, docente di Economia e gestione delle imprese dell’Università di Bologna.
Sembra di assistere a un muro contro muro tra Governo e Giudici del Tribunale di Taranto. Come si scioglie questo nodo?
Il caso Ilva evidenzia come ogni potere dello Stato persegue solo obiettivi parziali. Se non c’è una convergenza verso un interesse di tutti difficilmente si riesce a trovare una soluzione. Quindi il problema non è abbassare il livello di sicurezza oppure accettare condizioni lavorative peggiori ma trovare un compromesso, nel senso più nobile del termine, fare un patto affinché ciascuno faccia la sua parte.
Secondo lei, questo patto è fattibile?
È indispensabile e sarebbe un bell’esempio per tutto il Paese. Chiedere a ogni parte un sacrificio non vuol dire togliere qualcosa, ma riconoscere un valore più grande in quello che si fa. Capisco sia la magistratura che richiede livelli di sicurezza europei, sia i sindacati che fanno la loro parte. A ognuno è chiesto un sacrificio, di fare uno sforzo per trovare la situazione migliore per tutti.
In questo periodo di elezioni, secondo lei, c’è terreno fertile per giungere a un compromesso?
Naturalmente il momento elettorale potrebbe non favorire il raggiungimento di un accordo: siamo in una situazione in cui i vari attori ricercano consensi prima ancora di pensare a quali siano le scelte migliori da fare per il Paese, che potrebbero essere impopolari. D’altro canto si tratterebbe di un bell’esempio di politica sana…
Con i mille cavilli a cui ci si può appigliare, è possibile che non si arrivi ad altro che alla morte dell’azienda ancor prima di aver trovato un compromesso?
Questo vorrebbe dire che la politica non è in grado di trovare soluzioni, che la magistratura non ha come preoccupazione anche un bene più grande e che i sindacati non fanno il loro compito di camera di compensazione.
I giudici possono trovare soluzioni che tengano conto di tutti i fattori in gioco?
Sicuramente i giudici hanno il compito di fare rispettare le leggi. Per cui è sufficiente individuare una normativa che consenta ai giudici di far rispettare la legge.
Se, però, da una parte il Governo vara un decreto legge, dall’altra la Procura di Taranto è ferma sulle sue decisioni. Come si trova un accordo?
Ci vogliono delle leggi speciali. È compito dei giuristi trovare delle normative. La distinzione tra potere legislativo e potere giudiziario è chiara, ma è impossibile che non ci sia una via d’uscita, perché a quel punto si porrebbe in tutti i campi della nostra convivenza. Per cui la magistratura impugna delle leggi che altri hanno fatto e questo vorrebbe dire che chi fa le leggi le fa contro la legge. È compito del legislatore formulare delle leggi sostenibili.
Esistono anche casi in cui, invece, grandi aziende, in difficoltà, riescono facilmente ad arrivare a dei compromessi?
Se non sono casi estremi come quello dell’Ilva sì. Quando ci sono crisi aziendali si fanno accordi di programma e le soluzioni si trovano. Serve un tavolo con pieni poteri. Io che studio la gestione dell’impresa penso che l’impresa debba essere inserita in un contesto normativo istituzionale in grado di metterla in condizioni di fare impresa.
Dal suo punto di vista, per come stanno andando le cose e dato il periodo elettorale, assisteremo presto a un finale della vicenda “Ilva”?
Penso di sì, anche perché ne va della reputazione dei partiti tradizionali. Se così non fosse, si lascerebbe un ottimo motivo ai sostenitori dell’antipolitica per documentare il fatto che la politica abbia fallito.
(Elena Pescucci)