Stiamo tornando alle “guerre valutarie” sul tipo di quelle che caratterizzarono gli anni Settanta e Ottanta? L’euro è arrivato al livello più alto rispetto al dollaro Usa (1,35) dalla fine del 2011. Secondo Bill Gross, fondatore di Pimco, il più grande fondo obbligazionario al mondo, l’incendio da spegnere riguarda le valute: «Non sono solo i giapponesi che stanno utilizzando la politica monetaria per indebolire la loro valuta. Anche gli americani e gli inglesi lo stanno facendo». E se ancora il concetto non fosse abbastanza chiaro specifica: «Siamo in una guerra valutaria». Secondo Gross, la situazione assomiglia addirittura a quella degli anni Trenta del secolo scorso: «Anche allora ci fu un svalutazione competitiva: per l’Europa; ma oggi alla luce dei diversi interessi in gioco a causa dei tanti paesi che compongono la zona euro, sarà un difficile sia il tentativo di apprezzare, sia quello di deprezzare la moneta unica».
In effetti, per Spagna e Italia un euro “più debole” di quello degli ultimi giorni giocherebbe a sostegno delle loro economie; per il cuore d’Europa, la Germania, cambierebbe ben poco, visto che il Paese sarebbe in grado di tenere il passo sui mercati mondiali «anche in assenza di una svalutazione monetaria». Mentre il ministro delle Finanze giapponese, Taro Aso, ha respinto le accuse internazionali di manipolazione dei cambi. Qualche giorno fa a lanciare accuse è stato il Commissario agli Affari economici e monetari, Olli Rehn. Rehn ha affermato che «l’euro non è sopravvalutato, ma l’Unione europea è impegnata a evitare una guerra di valute».
La palla è ancora al centro. Nessuno dei giocatori sembra aver paura di fare autogol. Per Pimco la soluzione c’è: passa per una strategia che suggerisce di vendere dollari, mantenere in portafoglio euro e acquistare oro. Prima che sia troppo tardi. Per il Tesoro americano sembra di essere tornati al benign neglect – ossia al non curarsi di dove va il mercato delle valute.
A mio avviso, nessuna di queste strategie è appropriata se non si cura il “sottostante”, ossia il caos nel commercio mondiale. Pascal Lamy (Direttore generale del Wto, Organizzazione mondiale del commercio) sta per lasciare l’incarico. Ci sono nove candidati alla sua successione. Ereditano un cumulo di macerie perché fallita la Doha Development Agenda (Dda) è in corso una nuova ventata protezionistica attraverso l’Atlantico. Tale ventata rappresentata un’insidia a un’ulteriore liberalizzazione degli scambi mondiali. Minaccia di aprire la porta a una nuova ondata di protezionismo.
Non solo, il processo di de-globalizzazione inizierebbe dal gruppo dei paesi ad alto reddito pro-capite, a struttura produttiva avanzata, e a forte tecnologia. Ripetendo il copione di circa 100 anni fa, quando nel 1905, o giù di lì, terminò la lunga fase d’integrazione dell’economia internazionale (e di crescita dei redditi e dei commerci) cominciata attorno al 1870. Negli Usa, l’attacco alla liberalizzazione degli scambi agli stessi accordi regionali (come il Nafta, il trattato di libero scambio tra gli Stati del Nord America) è stata al centro della campagna elettorale per le presidenziali.
Ad aggiungere benzina sul fuoco, un’analisi dell’Economic Policy Institute, il “pensatoio” di Washington supportato dalle maggiori organizzazioni sindacali: un’analisi attribuisce alla liberalizzazione degli scambi avvenuta negli ultimi 40 anni (il Wto e il suo predecessore, il Gatt, hanno complessivamente 60 anni) non soltanto la perdita di posti di lavoro nel manifatturiero, ma anche il divario salariale tra le fasce alte delle forze di lavoro e i “working poor” (“i salariati poveri”). È una conclusione tendenziosa e artata (lavori di Lawrence Katz dell’Università di Harvard quantizzano, da oltre un lustro, le determinanti del differenziale e individuano la principale nelle storture di un sistema universitario in cui l’offerta di laureati in discipline scientifiche non tiene dietro alla domanda).
In aggiunta, una ricerca del Peterson Institute of International Economics dimostra che l’aumento del commercio internazionale ha comportato un incremento di dieci punti percentuali del reddito nazionale americano nel periodo dalla fine della Seconda guerra mondiale al 2006. Tuttavia, il neoprotezionismo plasma i programmi dell’Amministrazione Obama e ha risposta complessivamente debole da parte dei repubblicani.
Più complesse le insidie provenienti dal Vecchio Continente. Esse si nascondono dove uno meno se lo aspetta e probabilmente anche per questo motivo non sono state notate né dagli europeisti più convinti, né soprattutto dei “liberisti della Domenica”. Si annidano negli articoli di quel Trattato di Lisbona con l’intento di rilanciare il processo d’integrazione europea (dopo il fallimento del tentativo di redigere una magniloquente Costituzione).
Per afferrarne l’importanza occorre fare un passo indietro di 60 anni, al Trattato di Roma che affidava, in via esclusiva, alla Commissione europea i negoziati commerciali con il resto del mondo: non era un aspetto unicamente simbolico, ma sostanziale, poiché non si sarebbe potuto dare vita a un mercato comune con una rete di accordi bilaterali tra i singoli Stati membri e gli altri.