Il bollettino della Bce ci ricorda che, dopo sei semestri in rosso, l’economia dell’eurozona ha registrato il primo timido rialzo del Pil. Lo stesso bollettino, però, ci informa che la comunità a 17 ha appena “festeggiato”, si fa per dire, l’ottavo trimestre di contrazione degli occupati. E già anticipa che non sarà facile interrompere il trend negativo: nell’eurozona c’è ancora troppa capacità produttiva inutilizzata per pensare di assorbire le eccedenze. L’ascesa dell’export, che resta la principale carta da giocare per puntare alla ripresa (parlare di crescita sarebbe comunque esagerato), servirà ad accrescere la produttività degli impianti che marciano a regime ridotto, ma certo non ad assorbire nuova occupazione. Insomma, per usare le parole dell’istituto di Francoforte, la cosa migliore che possiamo attenderci è “una stabilizzazione dei tassi di disoccupazione su livelli elevati”.



È in questa cornice deprimente che si registra un rally dei mercati finanziari, a partire dall’Europa del Sud, che mette in serio imbarazzo le Cassandre: che metodo c’è, tanto per restare in Italia, nella folle combinazione di produzione industriale che va a picco (-4,6% rispetto ad un anno fa, -7,6% tendenziale) e listino di Borsa che sale ai massimi dal luglio 2011? E come si può spiegare la contemporanea crescita degli indicatori di fiducia delle imprese con i segnali recessivi, anche clamorosi, che confermano come l’Italia stia cambiando atteggiamenti e costumi, più per necessità che per scelta? Vedi, ad esempio, la decisione del Motor Show, già oggetto di vere e proprie migrazioni di massa, di non tenere l’edizione 2013, per mancanza di prenotazioni delle case automobilistiche: ormai l’attenzione di Daimler o Bmw, che a fine anni Ottanta vendeva più nel Nord-Est che nella stessa Baviera, è spostata verso la clientela cinese, brasiliana o americana. L’Italia è diventato un mercato secondario anche per i produttori di alta gamma.



È possibile liquidare questo e altri sintomi della crisi alla luce dello slogan “sempre più ricchi, sempre più poveri” che sta caratterizzando l’avvio del nuovo millennio. Non solo in Italia. Dietro l’ottima ripresa dell’occupazione in Germania, l’unico Paese che può dire di esser vicino all’obiettivo del pieno impiego (almeno a Ovest), c’è la realtà dei mini-job, ovvero i contratti part-time a 450 euro al mese (non tassati): doveva essere una soluzione temporanea, o meglio una camera d’attesa in vista di lavori meglio retribuiti. Al contrario, mini-job, part-time e impieghi temporanei sono in netta crescita, magari sotto il tetto della stessa azienda. Negli Usa, intanto, si stanno moltiplicando i 29 hours job, ovvero i contratti sotto le 30 ore settimanali, il confine oltre il quale scatta l’obbligo per il datore di lavoro di assicurare il dipendente alla sanità pubblica prevista dal tanto odiato (dai repubblicani) Obamacare.



Un po’ ovunque, insomma, si restringono gli spazi del welfare e del reddito reale dei lavoratori. Ma nel frattempo si allarga il muro che separa destra e sinistra, entrambe percorse da tentazioni populiste sia in Europa che in Usa. Il conflitto tra tax payers e tax takers, cioè tra chi paga più di quel che può attendersi dalla mano pubblica e chi al contrario ha da trarre beneficio dalla redistribuzione dei redditi. Un conflitto che in Usa, dove è in atto il drammatico scontro sul bilancio tra la Casa Bianca e una destra molto aggressiva, assume anche connotati geografici e razziali. In un Paese ove i singoli Stati hanno potere di imposizione fiscale aggiuntiva rispetto alla tassa federale, l’Irs, si fa sempre più netta la distinzione tra, ad esempio, la California (con un’alta percentuale di ispanici a basso reddito) e il Texas, dove affluiscono i contribuenti ad alto reddito in arrivo da Los Angeles e San Francisco, attratti dall’aliquota locale zero contro il 13% imposto dalla California. E l’alta tassazione è destinata ad avere importanza decisiva nelle prossime elezioni di New York.

Perché questa contrapposizione tende a inasprirsi? Perché il debito è un problema un po’ per tutti, anche per chi non soffre della patologia abnorme del debito pubblico italiano. Di qui una pressione che sta portando a cambiamenti, sia nei comportamenti che nelle scelte politiche. E che rischia di provocare grossi guai, come dimostra il blackout nell’amministrazione fiscale del Paese più importante del mondo. Ma, anche, nel nostro piccolo, il costante pericolo di tanti piccoli blackout che attraversano la politica italiana, comunque ingessata dalle regole dell’Eurozona che frau Angela Merkel ha saputo imporre a tutti (vedasi l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione o le prossime regole dell’Unione bancaria che o sarà tedesca o non sarà).

L’ascesa della Borsa, in questa cornice, va considerata un gesto di sfida dei ricchi? Probabilmente no. La realtà è che l’Occidente, in assenza di un salto tecnologico e, chi più chi meno, in crisi demografica, non è in grado di replicare i tassi di crescita del passato, in parte camuffati dalla droga del credito facile a cavallo del Millennio che ha portato alla bolla dei subprime. Ma l’Ovest non è, salvo poche eccezioni, in grado di sviluppare una politica fiscale condivisa. Cosa abbastanza logica, visto che si tratta di mettere in comune meno risorse che in passato.

A questo punto, ad assicurare la tenuta del sistema, non c’è che la politica monetaria, eccezionalmente espansiva. Non è certo per caso che, dopo aver verificato in estate gli effetti spaventosi provocati dal semplice annuncio di una svolta della politica monetaria Usa, la Casa Bianca abbia affidato il mandato a Janet Yellen, non solo architetta del quantitative easing, ma che potrebbe, a ben leggere i suoi interventi pubblici più recenti, adottare la politica del targeting nominale. Ovvero fissare un obiettivo di crescita del Pil senza preoccuparsi dell’eventuale inflazione procurata da una politica espansiva. In parole povere, finché la disoccupazione rimarrà elevata, sostiene la Yellen, sarà bene tollerare un’inflazione sopra il 2%.

Il risultato? I tassi resteranno a zero o giù di lì fino al 2016, prevede Goldman Sachs. E questo non potrà che spingere all’insù le Borse ma anche sostenere il reddito fisso, che ha già perso molto, o le materie prime. Permetterà alle banche di assumere grosse dosi di denaro liquido e al sistema, una volta assorbiti gli eccessi passati, di rimettere in sesto il mercato immobiliare. La ripresa di Piazza Affari, insomma, non è tanto destinata a premiare la speculazione (che è poca cosa, di questi tempi), ma almeno per ora a rimettere un po’ di polpa nelle casse societarie che annaspano piuttosto che ad abbassare il costo del debito pubblico.

Le controindicazioni? Staranno in piedi le aziende zombie, quelle che in una situazione normale fallirebbero per lasciar spazio a imprese nuove e a posti di lavoro sani. Si profila, nell’attesa di una nuova stagione, una sindrome giapponese: Paese che invecchia, cresce poco, aumenta il debito pubblico e perde porzioni di reddito. Non è una bella prospettiva, ma è l’unica disponibile, a meno che non si voglia seguire la ricetta di Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank che sostiene che i piani elaborati da Mario Draghi per evitare il collasso della Spagna e dell’Italia hanno distolto le energie dalle necessarie riforme: fossimo con le spalle al muro, è la tesi, faremmo quelle riforme che ci rifiutiamo di fare fino all’ultimo. Chissà, a giudicare da quel che si vede per salvare l’Alitalia, con il suo corredo di consulenti, periti, spese di rappresentanza e incapacità gestionale, c’è quasi da dargli ragione.