Ci sono due buone notizie: non siamo ultimi, e siamo risaliti di cinque posizioni. Per il resto, la collocazione dell’Italia nella classifica della competitività stilata dalla Banca mondiale si addice più ai Paesi del Terzo mondo (che peraltro, in gran parte ci superano) che a uno dei più industrializzati. La Doing Business, infatti, ci ha piazzato al 65esimo posto. E se non siamo al 70esimo dobbiamo solo ringraziare alcune misure relative alle normativa che regola i passaggi di proprietà, le tariffe degli avvocati, l’efficacia dei contratti e le procedure fallimentari. Prima di noi ci sono l’isoletta di Santa Lucia, la Bielorussia, le Isole Fiji, Samoa, il Brunei, la Bulgaria, il Tongo e Botswana, il Kazakhstan e la Tunisia. Perché, in Italia, fare imprese è così complicato? Lo abbiamo chiesto a Paolo Preti, direttore del master Piccole imprese della Sda Bocconi.



Come interpreta i dati della classifica?

Queste ricerche internazionali, di norma, puntano la lente di ingrandimento su un particolare. Esso, ingrandito, apparirà di gran lunga migliore o peggiore di quello degli altri paesi. Ciò non significa che la rilevazione sia scorretta, tutt’altro. Ma il metodo di indagine prescinde dall’insieme. È come se ci soffermassimo su un punto di un quadro. Non vedremmo altro che una macchia.



Eppure, la competitività è composta da svariati fattori.

Il “particolare”, in questo caso, è la competitività stessa. Che, a sua volta, è definita nei termini di funzionamento della giustizia, fisco, accesso al credito, permessi per costruire, funzionamento delle infrastrutture energetiche o disciplina fallimentare; ovvero, da una serie di elementi che, pur essendo di indubbia importanza, risiedono al di fuori dei cancelli delle imprese. Intendo dire che non descrivono tanto il sistema industriale, quanto il sistema Paese.

Crede che la ricerca abbia sbagliato bersaglio?

Sarebbe logico che chi effettua queste ricerche si domandasse: “Com’è possibile che l’Italia, pur essendo al 65esimo posto per competitività, continua a essere tra i primi dieci paesi al mondo per dimensioni economiche?”.



E a quel punto, cosa scoprirebbe?

Se chi realizza questi studi internazionali si degnasse di rispondere  anche a questa domanda, si troverebbe costretto ad ammettere che le nostre aziende, nonostante il contesto altamente sfavorevole in cui operano, hanno la capacità di tenere in piedi il Paese. Purtroppo, l’anomalia italiana non importa a nessuno.

 

Quindi, in che condizioni versano le nostre aziende?

Anzitutto, l’export italiano è tornato sui livelli pre-crisi, mentre in molti settori è aumentato. Continuiamo, inoltre, a essere il secondo Paese manifatturiero in Europa e il quinto al mondo. Ci dicevano che avremmo dovuto spostare il cuore della nostra economica dall’industria ai servizi. Fortunatamente, non lo abbiamo fatto. Detto questo, è evidente a tutti che, metaforicamente, stiamo facendo una gara con lo zaino sulle spalle in termini di deficit elevati su tre fronti: burocrazia, giustizia e infrastrutture.

 

Quanto possiamo resistere con questo fardello?

È un fardello che abbiamo sempre avuto, e la cui responsabilità è imputabile alla politica. Va anche detto, tuttavia, che avevamo milioni di imprese, oggi ne abbiamo molte meno. Ciò significa che, da un lato, la crisi ha fatto “pulizia” di molte di quelle aziende che, al di là dei fattori esogeni, sarebbero comunque state troppo deboli per resistere in un mercato competitivo. Quelle che si sono salvate, invece, si sono irrobustite.

 

(Paolo Nessi)