Giorni fa è rimbalzata su tutti i media nazionali la notizia relativa alla pubblicazione del rapporto della Commissione europea sulla competitività dei paesi a livello mondiale. Il destino beffardo ha voluto che la diffusione di tale rapporto certificasse il superamento dell’Italia da parte della Spagna in termini di competitività, proprio nel giorno in cui si è chiuso l’accordo che porterà la spagnola Telefonica al controllo di Telecom Italia. Come dire, i fatti non avvengono mai per caso.



Il documento pubblicato lascia poco spazio all’ottimismo ed evidenzia come nella classifica, stilata sulla base di diversi indicatori, l’Italia abbia perso sette posizioni rispetto all’anno precedente, passando da un già poco brillante 42° posto, al 49°. L’analisi appare ancora più impietosa considerando che persino i paesi europei più in difficoltà e stretti nella morsa della crisi, come Spagna e Grecia, hanno comunque guadagnato posizioni.



Se alcuni indicatori macroeconomici negli ultimi mesi indicano che l’Ue nel suo complesso mostra qualche timido segnale di ripresa, il rapporto contiene l’evidenza che l’Italia è tra i paesi meno pronti ad agganciarla e numerose sono le criticità irrisolte su cui si continua a non volere intervenire, laddove anche Atene e Madrid hanno saputo fare passi avanti. Le note più dolenti che portano il nostro Paese a strimpellare una sinfonia sempre più stonata sono conosciute e risapute: pressione fiscale su famiglie e imprese, burocrazia, costo dell’energia, smantellamento del sistema industriale, malfunzionamento del mercato del lavoro.



Se la perdita di competitività dell’Italia nel suo complesso ormai non sorprende più, può essere interessante spostare l’analisi a un livello territoriale più basso, estrapolando qualche considerazione dal rapporto Ue sulla competitività delle Regioni europee, pubblicato a fine agosto e passato per lo più inosservato agli occhi dei media.

Prima di addentrarsi nello specifico è opportuno considerare che gli effetti rivoluzionari che hanno accompagnato il processo di globalizzazione nel campo della tecnologia, delle comunicazioni e dei trasporti, hanno interessato la vita di ognuno di noi: gli individui oggi si spostano con maggiore facilità alla ricerca di aree in grado di valorizzare le proprie capacità lavorative, le proprie risorse individuali e finanziarie, le proprie esigenze in termini di qualità di vita, di divertimento e di tempo libero. Allo stesso modo le imprese si spostano con crescente mobilità da un’area all’altra, alla ricerca non solo di costi di produzione più bassi o di politiche fiscali più favorevoli, ma anche di risorse più qualificate, di territori che meglio si adattino alle proprie esigenze o alla ricerca di varie tipologie di “economie esterne”.

In questa situazione di “competizione territoriale”, dove gli individui e le imprese sono sempre alla ricerca di aree che possano offrire loro le migliori condizioni, vengono logicamente ad assumere maggiore importanza le caratteristiche proprie di ogni singola area, gli elementi e i vantaggi competitivi che ogni singolo contesto territoriale è in grado di offrire a un livello più basso rispetto a quello nazionale. Paradossalmente, nell’era della globalizzazione la qualità dello spazio locale assume un’importanza centrale e diviene strumento di competitività per gli attori economici insediati sul territorio. Compito fondamentale delle istituzioni nazionali centrali è quello di creare organicamente le condizioni necessarie per favorire l’espressione, la valorizzazione e lo sviluppo delle specificità locali, delle vocazioni e delle caratteristiche dei singoli territori.

Il Rapporto Ue sulla competitività delle regioni europee rappresenta l’evidenza di quanto espresso concettualmente, in termini più rigorosi. L’analisi conduce a un indicatore di sintesi (Regional Competitiveness Index, RCI) che riassume circa 70 sotto-indicatori di competitività che vanno a indagare sia sulle condizioni basilari per il funzionamento e lo sviluppo di un sistema economico (qualità ed efficienza delle istituzioni, stabilità macroeconomica, infrastrutture, salute, educazione primaria), sia su variabili di efficienza (educazione avanzata e formazione permanente, mercato del lavoro), sia sul grado di innovazione e di reattività delle imprese nel recepire i cambiamenti tecnologici. Dalla cartina di seguito è possibile avere una visualizzazione del RCI ottenuto a livello regionale nei paesi Ue.

Il quadro che ne esce a livello europeo è piuttosto frammentato e nonostante vi sia un grado di bassa competitività abbastanza uniforme a est, nel resto d’Europa spesso la situazione non è così omogenea all’interno dei singoli paesi (ad esempio, in Francia o in Gran Bretagna).

Una delle principali considerazioni contenute nel rapporto ci tocca da vicino ed è del tutto evidente osservando la cartina: contrariamente al passato, non è più evidenziabile quella che, proprio per la sua forma, veniva definita “blue banana area” e che collegava l’area di Londra e dell’Inghilterra meridionale al Nord Italia, passando per i Paesi Bassi e la Germania. Per meglio dire, non è più visualizzabile nella sua interezza, proprio a causa del peggioramento degli indicatori di competitività nelle regioni settentrionali italiane.

Nonostante sia ancora evidente una dicotomia Nord-Sud all’interno del nostro Paese, la situazione sembra più livellata rispetto al passato, ma verso il basso. Anche aree tradizionalmente e storicamente più competitive, oggi arrancano e non riescono a tenere il passo in termini di competitività. Entrando nello specifico dei singoli indicatori analizzati, si osserva come le macro aree più penalizzanti per il Nord Italia siano quelle legate all’efficienza delle istituzioni (sia quelle locali, sia l’impatto territoriale delle istituzioni nazionali), alla stabilità macroeconomica, ai risultati del sistema educativo di base, ovvero aspetti su cui impatta in misura determinante il “sistema-paese”, che dovrebbe favorire la creazione delle migliori condizioni per valorizzare i punti di forza locali e territoriali.

Per quanto la fertilità del contesto locale sia fondamentale all’interno di una situazione di “competizione territoriale”, è evidente che una dimensione nazionale (a volte anche sovranazionale) gioca ancora un ruolo importante nel facilitare la creazione di buone condizioni per lo sviluppo. In Italia lo Stato e le sue emanazioni periferiche hanno abdicato a questo ruolo di “facilitatore”, preferendo ruoli da attori diretti nell’arena economica, cosa che certamente permette di garantire maggiore efficacia alle logiche clientelari di cui questo Paese è impregnato e di agire in maniera più diretta e immediata sull’ottenimento di un consenso elettorale.

Lo Stato è presente (troppo) nell’economia e lo è da attore protagonista; fa troppo e male, lo fa in maniera inefficiente e organizzandosi secondo logiche anti-meritocratiche. Nel frattempo si dimentica di fare (bene) quello su cui dovrebbe concentrarsi tra cui, ad esempio, individuare, discutere e implementare in maniera organica le strategie che potrebbero effettivamente agevolare lo sviluppo dei singoli territori e la valorizzazione dei punti di forza locali, che esistono tanto al Nord quanto al Sud. Si preferisce continuare a percorrere sentieri del passato, gli stessi che ci hanno portato a quell’abnorme debito pubblico che oggi ci strangola e rende tutto più complicato.

Osservando la cartina balza all’occhio un’altra interessante considerazione, più storica per certi versi, relativa all’evidente differenza tra i risultati del processo d’integrazione nazionale che ha accompagnato lo sviluppo post-unificazione in Italia e in Germania. Oggi la Germania dell’est, seppure con qualche contraddizione, è integrata e inserita all’interno di un sistema-Paese evidentemente competitivo e che ha saputo fare tesoro anche delle differenze territoriali pre-unificazione. In Italia l’annosa e mai risolta questione meridionale è sotto gli occhi di tutti e anche dal rapporto Ue è evidente, per qualsiasi indicatore considerato.

Sicuramente le due situazioni non sono direttamente paragonabili, per ragioni storiche, economiche, territoriali e socio-culturali, ma qualche riflessione su questa differenza nei risultati raggiunti sarebbe interessante, anche volgendo lo sguardo a una prospettiva europea. Questo significa che quando parliamo di integrazione europea e abbandoniamo per un attimo il campanilismo nazionale che ancora oggi contraddistingue tutti i paesi, anche i tedeschi qualche buona idea su come e cosa fare, forse potrebbero averla.

E sarebbe interessante anche per la Germania ragionare in questo senso, cercando di gettare lo sguardo oltre lo steccato del mero rigorismo economico, che resta comunque importante, ma guardando alla costruzione di un’Europa differente, che sappia risvegliare lo spirito europeista oggi soffocato da ciò che talvolta appare solo come una grossa macchina burocratica.