Gli avvenimenti di questi ultimi giorni nel mondo dell’industria italiana confermano la mia tesi che, dopo l’età delle privatizzazioni senza liberalizzazioni, ossia negli anni in cui noi viviamo, moriremo per eccesso di regolazione e carenza di investimenti. Dagli anni della deregolamentazione finanziaria e delle privatizzazioni senza liberalizzazioni degli anni ‘90 del Novecento, il patrimonio industriale europeo e italiano in specie è infatti uscito gravemente compromesso. L’eccesso di leva a rischio finanziario provocato dal dilagare dei managers stockoptionisti ha ritardato la crisi industriale dell’Europa del Sud grazie alle bolle immobiliari e all’eccesso di rischio delle banche capitalistiche di quei paesi. Ma non l’ha evitata. Essa è giunta, con effetti devastanti. La macrorigidità della moneta unica ha disvelato l’impossibilità di allineamento dell’Europa a tardiva industrializzazione a fronte del neo-gigante teutonico.
L’economia mista dello Stato imprenditore, che aveva agito come effetto di sostituzione nei confronti dell’Europa continentale, non è stata avvicendata da possenti gruppi industriali privati, ma invece da una distruzione à là Eltsin e à là Menem che è stata la prima causa della decrescita manifatturiera. Il colmo è stato che la regolazione contro gli incumbent ha trasformato quasi mercati oligopolistici scarsamente efficienti in pseudomercati a controllo politico per nulla efficienti: vedi multiutilities locali, fondazioni bancarie et similia. L’irrompere delle autorità indipendenti – per dirla con il grande e compianto Alberto Predieri – ha così significato incertezza delle regole, nuovi prezzi amministrati, caduta degli investimenti. Di tutto ci si è occupati in Europa e in Italia salvo di come si possa promuovere una nuova ondata di investimenti nel contesto di una globalizzazione inevitabile e sempre più aggressiva.
Così la risposta è tragica: abbiamo privatizzato senza ricostruire, abbiamo penalizzato senza creare condizioni per nuovi investimenti, abbiamo aumentato l’area dell’economia rent-seeking e quindi dello spreco capitalistico, per usare termini non più di moda ma sempre efficaci. Quindi si potrebbe dire che dopo lo Stato è emerso il volto di una società tribale in economia che penalizza la nuova crescita e aumenta il rischio di un declino irreversibile.
Le grandi industrie energetiche europee hanno costituito una lobby trasparente, ossia una sorta di coordinamento tra di esse, per cercare di trasformare la politica energetica europea che di dette imprese riduce i margini, aumenta i costi e quindi le tariffe. In Italia abbiamo bisogno di una rappresentanza funzionale consimile da parte di ciò che rimane dell’industria manifatturiera per evitare che il Paese diventi la nazione agricolo-commerciale che era agli inizi del Novecento. So che è quello che Luigi Einaudi auspicava prima della guerra mondiale. Questo è ciò che oggi auspicano gli gnomi della McKinsey che vorrebbero trasformarci in un popolo di dignitosissimi camerieri, chitarristi, violinisti, badanti, laureati in scienze della comunicazione e dell’ambiente, ecc. Ma, se così fosse, dopo non ci sarebbe veramente più nulla.
Al nulla siamo quasi giunti, se riflettiamo su quanto è successo in Telecom in questi giorni. Gli azionisti finanziari italiani hanno di fatto dismesso per un pezzo di pane le quote di controllo, hanno rifiutato il piano di aumento di capitale promosso dal top management e hanno svenduto quella che un tempo era una delle grandi imprese di comunicazioni mondiali in una provincia di un’impresa come Telefonica. Anch’essa è oberata dai debiti e dalla necessità di rifarsi della caduta dei margini, provocata da una dissennata politica liberista europea, intensificando la sua presenza in America Latina e in primis in Brasile. Ma il Brasile, con l’Argentina, è l’ultima provincia internazionale di Telecom ed è sottoposto a norme di regolazione di stampo nordamericano. La conseguenza sarà che Tim Brasil scomparirà e rimarrà solo Vivo, ossia la compagnia di Telefonica.
Ma c’è di più. Il governo italiano vorrebbe anche scorporare dagli asset Telecom la rete fissa e questo vorrebbe dire, in verità, come ha chiaramente fatto intendere Marco Patuano, attuale Ceo, la fine stessa di Telecom. Gli spagnoli riprodurrebbero in tal modo il modello di privatizzazioni Prodi-Eltsin-Menem: ossia privatizzare per far comprare a coloro che vogliono eliminare un concorrente. Questo mi sembra il modello di deindustrializzazione promossa dalle oligarchie finanziarie e dal governo. Diversi sono i casi che sono avvenuti o stanno avvenendo promossi da coorti manageriali straniere e italiche insieme che vendono gruppi industriali ad azionisti stranieri, non per eliminare concorrenti ma per valorizzare asset e occupazione oppure per risanare aziende in gravi difficoltà finanziarie.
Il primo caso è stato quello virtuoso dell’acquisto di Avio da parte di General Electric. Il secondo sarà quello del cosiddetto “civile” di Finmeccanica che tramite una sorta di portage di Cassa depositi e prestiti sarà poi passato a gruppi coreani. Quest’ultimo caso è a differenza del primo molto più discutibile sul piano della politica industriale. Infatti, oggi in un’industria sistemica la divisione tra settori militari e settori civili è sottilmente sfumata e difficilmente tracciabile. Anche qui quindi una ricapitalizzazione sarebbe stata auspicabile. Ma naturalmente questo implica infrangere i tabù che lo Stato come imprenditore non debba più apparire all’orizzonte della nostra nazione e dell’Europa tutta.
Ma se non infrangeremo questo tabù, unitamente a quello che le imprese sane possono essere solo quelle capitalistiche e non anche quelle cooperative, pubbliche e e no profit saremo destinati a sprofondare nella disoccupazione di massa. Leviamo i calici agli economisti liberisti cavalieri di una morte annunciata.