Tutto come previsto. O no? A prima vista i dati in arrivo dall’Eurozona non aggiungono nulla di nuovo al quadro già noto. L’Italia segna un nuovo record negativo, ovvero il nono trimestre consecutivo con il segno meno, come non era mai successo nel dopoguerra. Il Pil del 2013 registrerà un nuovo calo rilevante, l’1,9% in meno. Peggiora, intanto, la Francia, dopo l’effimera ripresa di metà anno: -0,1% e la sgradevole sensazione che al vertice di Bruxelles sarà Parigi a salire sul banco degli imputati. L’area euro, nel suo complesso, -0,3% , fa peggio, a conferma che la decisione del taglio dei tassi non era affatto peregrina o forzata, come scrive Werner Sinn, l’economista che ispira, tra l’altro, la linea della stampa popolare tedesca e che, ospite del Financial Times, spiega perché “Draghi ha sbagliato”.



I saggi tedeschi, però, più che sparare contro il “governatore della Banca d’Italia che si è trasferito a Francoforte” (come ha scritto la Bild) sono impegnati a far fronte comune contro le accuse del Tesoro Usa e dello stesso Olli Rehn, il commissario Ue finlandese che ha puntato il dito contro il surplus commerciale di Berlino. Non a caso ieri l’ufficio federale di statistiche ha rilevato come dietro la crescita del Pil tedesco dello 0,3% nel terzo trimestre (contro lo 0,7% precedente) ci fosse la crescita della domanda interna mentre l’export è in frenata. Nel 2014, poi, la ripresa (+1,7%) dipenderà in buona parte dall’edilizia e da altri fattori interni.



Insomma, dai dati non vengono fuori grandi novità. Salvo l’emergere della deflazione che la Bce cerca di contrastare con un aumento della liquidità, con la fiera opposizione dei falchi di Berlino perché, scrive Sinn, “non si combatte la deflazione in Spagna facendo salire l’inflazione in Germania”, che, per la verità, vede solo lui, dato che i prezzi sono largamente al di sotto dell’obiettivo del 2%.

Il panorama, al settimo anno di crisi non cambia. Janet Yellen s’insedia ai vertici della Fed ribadendo che occorre insistere per sconfiggere una volta per tutte la crisi. In Giappone si celebra il primo anno dall’avvio dell’Abenomics che, lungi dal provocare catastrofi, finora ha consentito di riportare il carovita all’1% e di far salire il Pil del 4,1%. Ma l’Europa non deflette dalla rotta dettata dalla Germania. E chi s’illudeva che, dopo le elezioni, Berlino avrebbe ammorbidito i toni si è dovuto ricredere. Anzi, dalle trattative tra Cdu e Spd filtrano note inquietanti: la risoluzione delle crisi bancarie (in caso di rischio di fallimento) non passerà, secondo l’accordo trai due partiti, da un organismo indipendente, bensì dal consiglio dei ministri delle Finanze in cui vigila Wolfgang Schaueble; i fondi per il salvataggio dovranno provenire dal fondo bancario e non dall’Esm, il “tesoretto” custodito in Lussemburgo. Più importante: ogni modifica agli accordi europei dovrà passare al vaglio di un referendum popolare tedesco. In questo modo frau Angela Merkel si cautela contro il rischio che dalle elezioni europee del prossimo anno possa emergere un esecutivo, che in teoria dovrebbe avere poteri ben più robusti di quelli attuali, che intenda introdurre elementi sgraditi all’austerità teutonica.



Anche qui nulla di nuovo, si potrebbe aggiungere. Ma non è così. Le cose, in realtà, sono ancora più toste, come dimostra la relazione con cui i cinque saggi dell’economia (altro istituto designato dalla Cancelleria ma indipendente dall’esecutivo, come vuole la complessa architettura istituzionale d’oltre Reno) hanno voluto accompagnare i dati pubblicati ieri. In tutto 524 pagine, un’enormità se l’obiettivo fosse stato di illustrare dati abbastanza scontati e prevedibili. Ma l’intento era un altro. I cinque saggi hanno colto infatti l’occasione per stroncare i punti qualificanti dell’intesa tra socialdemocratici e Cdu-Csu così come sta maturando nella trattativa.

I saggi, chi con più convinzione chi con un certo imbarazzo (vedi Peter Bofinger, il più vicino alla Spd) hanno detto no, nell’ordine, a: a) il salario minimo garantito, come chiesto dalla Spd a fronte di buste paga, nel caso dei mini job, che talvolta non superano i 5 euro orari; b) un tetto, concordato regione per regione, agli affitti, tema che rischia di farsi caldo di fronte all’ascesa dei prezzi immobiliari; c) l’aumento della pressione fiscale sui redditi più elevati; d) la revisione degli incentivi sulle energie rinnovabili.

Tanto per non creare equivoci, il rapporto dei cinque saggi, guidati da Christoph Schmidt, ha un titolo che è un programma: “Contro una politica economica che ci vuol far tornare indietro”. Il rischio, per i saggi, è di avviare una politica economica che miri alla redistribuzione, non alla creazione di ricchezza, cosa che la Germania, che si avvia a essere (e in parte lo è già) un Paese di vecchi, non si può permettere. Il documento ha già suscitato la reazione ostile dei sindacati, che hanno accusato i saggi di essere “lontani dalla realtà che vive il Paese”. Ma non è difficile prevedere che i saggi, al pari di Werner Sinn e della Bundesbank, rappresentano il pensiero dominante della Germania, Paese ove prende corpo il timore che il resto della Ue voglia “derubare” la ricchezza sudata con tanti sacrifici.

In questa cornice, difficile che la Germania consumi di più o riduca il suo surplus della bilancia commerciale piuttosto che metta in comune una parte delle sue riserve per avviare, come sarebbe logico, progetti comunitari finanziati dagli eurobond per ridare smalto al Pil europeo (con vantaggi evidenti pure per Berlino). La cancelliera Merkel sa che questa strada è impraticabile, pena una rivolta dei poteri forti, economici e intellettuali, del Paese.

Prendiamo atto, insomma, che la Germania non è (caso mai lo sia stato) il motore di un’integrazione economica che ha bisogno di un leader. Semmai, Berlino, che trae evidenti vantaggi dalla moneta unica, si limita a far il minimo sindacale purché la cosa non comporti per la nazione tedesca un solo euro di spesa in più.