Sta montando la pressione delle categorie produttive affinché il governo metta al centro dell’azione politica il lavoro e l’impresa. Come? Tagliando più spesa pubblica (uscite) allo scopo di lasciare più spazio di bilancio per ridurre le tasse (entrate) nel rispetto del pareggio di bilancio. Tale richiesta è sacrosanta in relazione a una situazione dove l’eccessivo drenaggio fiscale è causa di recessione e disoccupazione. L’unico modo per invertire tale situazione è quello di lasciare più capitale al mercato dandone di meno allo Stato.



Questa alternativa, in realtà, è un’anomalia sul piano dell’economia tecnica. Tipicamente, infatti, nelle situazioni di crisi grave, la giusta politica economica è quella di aprire tutti i cordoni della borsa: (a) alzare la spesa pubblica e allo stesso tempo ridurre le tasse, stimolando la ripresa con deficit (temporaneo) di bilancio; (b) sul piano della politica monetaria, ridurre al minimo il costo del denaro e inondare di liquidità il sistema economico prendendo un rischio (controllato) sul lato dell’inflazione; (c) svalutare.



Tali mosse anti-deflazione sono state fatte da America, Regno Unito, Giappone, ecc., e lì la crisi non c’è più. Ma in Italia, e nell’Eurozona, la crisi c’è ancora – in forma di ripresa troppo lenta – perché i trattati impongono regole irrazionali sul piano economico: (1) il deficit di bilancio non è ammesso oltre il 3% del Pil, pena sanzioni; (2) non è ammesso il rischio di inflazione; (3) conseguentemente la stimolazione via svalutazione del cambio non è un’opzione. Quindi, uno Stato che deve stimolare il mercato interno via riduzione delle tasse è costretto a farlo in pareggio di bilancio e con cambio de-competitivo, mettendo così in conflitto il mercato privato con il sistema pubblico.



Le categorie produttive chiedono di mettere in priorità il mercato, cosa tecnicamente corretta, ma ciò mette in grave difficoltà la politica perché deve ridurre gli apparati pubblici, con il problema che per aumentare il lavoro nel mercato stesso si deve ridurlo nel settore pubblico. Finora questo conflitto di interessi ha bloccato i tagli di spesa e li fermerà anche nella legge finanziaria in discussione. Ma nei prossimi due anni sarà inevitabile tagliare spesa e tasse perché in caso contrario l’Italia imploderebbe.

Infatti, il governo sta studiando un taglio di spesa e tasse attorno ai 30 miliardi entro il prossimo biennio, ma non si capisce ancora quale maggioranza parlamentare potrà approvarlo, certamente non questa che include sia i partiti della spesa, sia quelli della detassazione. A meno che la gabbia europea non diventi più flessibile.

 

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