Qualcosa di nuovo, in parte inatteso, sta avvenendo nell’economia globale. All’improvviso, infatti, gli ingranaggi del sistema hanno preso a muoversi a una velocità inaspettata. Alla fine della scorsa settimana, tanto per cominciare, è arrivato l’accordo sul Wto. Si è trattato, per la verità, di un’intesa al ribasso, assai meno ambiziosa di quanto sperato nel primo round di trattative, avviato dieci anni fa a Doha. Ma, dopo un’attesa biblica, fa sensazione il fatto che più di 130 nazioni abbiano avuto la volontà di aderire all’accordo multilaterale sui commerci, un trattato che suona come una polizza contro le tentazioni di protezionismo, particolarmente pericolose in tempo di recessione.



Accordi di questa portata non arrivano per caso o per mera volontà tecnica. Dal punto di vista politico, l’accordo segna la rinnovata leadership degli Stati Uniti d’America, assai appannata nei mesi scorsi dopo le incertezze palesate sul fronte della crisi siriana o in altre partite diplomatiche. Ma stavolta la delegazione Usa è stata in grado, nel round finale dei colloqui di Bali, di prendere in mano le redini del negoziato: sono stati gli Usa a trovare un’intesa soddisfacente per l’India, preoccupata dalla libertà di commercio dei cereali che metteva a rischio la sua politica di sostegno ai contadini. È stata Washington ad accantonare le richieste che più stanno a cuore all’economia a stelle e strisce, dalla tecnologia ai servizi, materie di cui si parlerà in altra sede, cioè nell’ambito dei trattati bilaterali per il libero scambio con il Sud-Est asiatico e con l’Unione europea. L’importante era salvaguardare il principio della grande intesa multilaterale, evitando di relegare la Cina in un angolo, alimentando un pericoloso complesso di isolamento.



Spostiamo i riflettori da Bali a Washington. Qui in settimana si sono verificati due episodi simbolici, all’apparenza del tutto sganciati dal Wto: l’uscita dello Stato da Gm e l’approvazione della Volcker Rule. In entrambi i casi, così come per l’intesa sui commerci, c’è un denominatore comune: l’economia più forte del pianeta vuole liquidare la fase di emergenza inaugurata con la crisi del 2009. Allora il Tesoro degli Usa, tra aspre critiche, era intervenuto per salvare l’industria dell’auto e per stendere una rete di protezione attorno alla grande finanza, ritenuta (non a torto) tra i grandi colpevoli del disastro. Oggi lo Stato federale è uscito da Gm che perde così l’etichetta, infamante negli Usa, di Government Motors per rientrare appieno nell’economia privata. Un successo anche se, a differenza dell’intervento in Chrysler (che non è costato un dollaro ai contribuenti Usa visto che l’azienda ha saldato tutti i debiti, assai onerosi, con il Tesoro), l’operazione Gm si chiude con un saldo negativo di circa 11 miliardi. Ma la cifra va inquadrata nel complesso degli interventi Tarp, l’operazione di salvataggio di assicurazioni (Aig), banche e agenzie dei mutui oltre che banche in cui il Tesoro Usa ha impiegato la cifra, all’apparenza mostruosa, di 421 miliardi di dollari. Ma da cui ha ricavato, dopo il ritorno ai privati degli asset risanati al mercato, 432 miliardi di dollari. La missione di salvare l’economia a costo zero è riuscita.



Poche ore dopo la conclusione del deal Gm, le cinque agenzie federali hanno approvato la Volcker Rule, che non dovrà più passare al vaglio del Congresso dribblando così le azioni dei lobbisti. D’ora in poi, o meglio dopo la redazione di un regolamento che s’annuncia un monumento alla complicazione, sarà vietato alle banche di fare trading in proprio nei settori a più alto rischio speculativo. È tutto da verificare se la regola servirà a ridurre il rischio sistemico oppure, come affermano gli oppositori, a congelare l’attività bancaria favorendo la fioritura di una nuova sterminata foresta della finanza ombra, sganciata dai controlli e senza trasparenza alcuna. Ma quel che conta è che, 15 anni dopo il trionfo della deregulation bancaria, viene imposto un serio vincolo alle banche too big to fail. Oltre ai ratios sul patrimonio previsti da Basilea 3. Quel che è certo è che i meccanismi di controllo, nazionali e internazionali, seppur a fatica si sono messi in movimento: il mondo ha archiviato gli ultimi frutti della stagione della deregulation, foriera di grandi profitti e benefici che si sono rivelati pericolosi.

Colpisce, almeno all’apparenza, che l’Europa, terra delle regole, faccia fatica a chiudere il 2013 con la riforma più attesa e delicata, l’Unione bancaria. Ma la posta in gioco è davvero alta. I paesi più deboli, Italia inclusa, forti del sostegno della Francia che forte non è più, insistono per creare una vera unione, in cui le banche italiane siano chiamate a rispettare gli stessi vincoli sotto il controllo delle stesse autorità. Ma anche con le stesse garanzie di protezione, in caso di crisi, dei colleghi del Nord, grazie a meccanismi comuni di salvataggio. La Germania, al contrario, cerca di affermare un modello federale in cui ciascuno si occupa della salute delle proprie banche, pur sotto una supervisione comune. E il ricorso ai quattrini della Ue sia limitato e sottoposto al voto dei singoli Stati. Insomma, ciascuno paghi per sé. Nessuno paghi per gli altri, se non dopo l’escussione di robuste garanzie. Alla fine, come è sempre accaduto, un’intesa, seppur generica, salterà fuori al vertice della prossima settimana: tanto ci sarà tempo per i “dettagli” visto che il fondo interbancario di 55 miliardi sarà costituito solo nel 2025. Sarà comunque un risultato politico di rilievo, ma con effetti pratici modesti.

Gli Usa incassano in questi giorni il giusto dividendo per aver affrontato con energia e mezzi la crisi delle banche nel 2009. L’Europa, alla pari del Giappone, è ancora alle prese con banche zombie, con montagne di crediti inesigibili in bilancio e nessuna possibilità di contribuire alla ripresa dell’economia. Da questa sommaria carrellata prenatalizia emerge che:

1) Gli Stati Uniti, grazie ai buoni risultati della politica di risanamento del tessuto industriale e finanziario (nonché alla salute della tecnologia e al formidabile traino dell’energia fornita dallo shale gas) hanno ormai voltato pagina e sono pronti a svolgere un ruolo leader nella ripresa dei commerci mondiali. In questa chiave va letto anche il secco richiamo alla politica commerciale tedesca.

2) Dopo la terapia del Quantitative easing, gli Usa sono in grado di rivedere una politica monetaria eccezionalmente espansiva. Il tapering, cioè la riduzione degli acquisti della Fed, non segnerà la fine della politica dei bassi tassi di interesse, ma l’impatto sulle Borse e, soprattutto, su alcune economie emergenti (vedi Brasile e Turchia, fortemente indebitate) sarà rilevante.

3) Anche l’Europa sembra avviata a beneficiare, pur con esasperante lentezza, della ripresa internazionale. Pesa sull’Ue la natura estremamente macchinosa e complessa dell’Unione che impone tempi e dinamiche lentissime, laddove gli altri si muovono a ben altra velocità, come dimostra la rapidità di crescita del Regno Unito.

4) La crisi del Vecchio Continente appare sempre di più la conseguenza di una crisi delle regole: troppe, spesso contraddittorie, comunque più frutto di compromessi che di volontà politica. Al punto di avvalorare il detto troppe regole, nessuna regola che in Italia trova la massima conferma.