Il Natale 2013 è ricco di doni per l’economia globale. La Federal Reserve, dopo una lunga attesa, ha finalmente avviato il “tapering”, novità temuta come un incubo la scorsa estate, oggi accolta con grande favore dalle Borse di tutto il pianeta. A Bruxelles, dopo l’ennesima trattativa sul filo del rasoio nella notte, si chiude con un “accordo storico” la partita dell’Unione bancaria. Gli istituti di ricerca concordano nel prevedere un 2014 in ripresa sia in Usa che in Europa. E non arrivano i temuti segnali negativi dall’Oriente. Certo, le tensioni tra Cina e Giappone non promettono nulla di buono, ma entrambe le potenze sono per ora troppo impegnate a rilanciare i consumi interni per nutrire sogni bellicosi.



In questo quadro, all’apparenza idilliaco, suona come una nota stonata il monito del Centro Studi di Confindustria: “La profonda recessione dell’economia italiana, la seconda in sei anni, è finita. I suoi effetti no”. Non solo perché la ripresa è comunque fragile ed esposta al rischio del credit crunch o ad altre variabili legate alla dinamica internazionale. Il rischio più immediato, per la squadra di Giorgio Squinzi, è “il cedimento della struttura sociale con il montare della protesta che si incanali verso rappresentanze che predicano la violazione delle regole e la sovversione delle istituzioni”. A giustificare il “rischio Forconi” (che Squinzi condanna ma dice di capire) ci sono cifre drammatiche: “Le famiglie – scrivono gli economisti di viale dell’Astronomia – hanno tagliato sette settimane di consumi, ossia 5.037 euro in media di anno. Le persone a cui manca lavoro, totalmente o parzialmente, sono 7,3 milioni, due volte la cifra di sei anni fa. Anche i poveri sono raddoppiati, a 4,8 milioni”.



A chi credere? Ai mercati, che scommettono sulla prospettiva di una ripresa? O a chi, non solo in Italia, pensa che la crisi del settimo anno (tanti ne sono passati dallo scoppio dei mutui subprime in America) possa risultare fatale? A entrambi, viene la tentazione di rispondere. Perché, come sempre capita nei momenti di transizione, convivono segnali opposti, non sempre facili da decifrare. Ma per capirci qualcosa, è forse il caso di osservare il quadro con un certo distacco, senza farsi impressionare dalle singole pennellate.

Il mondo, negli anni della crisi, è cambiato. La globalizzazione non è più quella di inizio anni Duemila, all’insegna dello sviluppo dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina). Certo, la Cina resta la seconda potenza economica mondiale. La Russia riveste ancora un ruolo strategico come fornitore di energia, così come il Brasile è al centro di grandi investimenti. L’India, pur in un momento delicato, resta un grande serbatoio di software. Ma si è interrotto il flusso di trasferimento del manufacturing da Ovest verso le nuove fabbriche del mondo. Le aziende occidentali non guardano a Shanghai come il centro ideale per fare borse, camicie e, se volete, personal computer piuttosto che iPad. La Cina sta cambiando pelle, vuoi per i costi del lavoro crescenti che per il pericolo inquinamento. L’obiettivo è l’aumento dei beni e servizi per il mercato interno, assieme a uno sforzo titanico per rendere più vivibili le città.



La globalizzazione, però, non è finita. Ma ha cambiato pelle. È ormai evidente la migrazione di ritorno delle aziende occidentali. La nuova frontiera sono, di nuovo, gli Stati Uniti d’America. Grazie alla disponibilità di energia fornita dallo shale gas, ma anche dal costo del lavoro, dalla flessibilità delle regole, dalla sensibilità delle amministrazioni locali e federali per favorire i nuovi investimenti. Grazie, non ultimo, alla crescita della tecnologia che rende possibile produrre in maniera più flessibile anche in impianti di dimensioni modeste (il 3-D) o di competere, grazie a Internet, nell’offerta commerciale di beni un tempo impensabili (vedi Amazon).

Lo stesso fenomeno investe anche la vecchia Europa. Meglio di tutti risponde la Gran Bretagna, l’economia più flessibile. La Spagna è sulla stessa rotta di marcia, al pari della Polonia o della Repubblica Ceca: la flessibilità della forza lavoro, combinata con l’aggressività delle agenzie a caccia di possibili investitori e altri fattori di successo possono fare la differenza. Basti, a mo’ di esempio, la legge spagnola che garantisce il permesso di soggiorno a chi compra una casa da almeno mezzo milione di euro o a chi investe due milioni in titoli di Stato. O quella portoghese, che prevede di non praticare prelievi fiscali sulle pensioni dei cittadini comunitari che si trasferiscono (tempo minimo 183 giorni all’anno) nel Paese lusitano, purché comprino casa o abbiano un affitto pluriennale.

La competizione tra paesi, insomma, si è spostata da noi. Non ha più senso recriminare sui cinesi. Anzi, le aziende guardano a Oriente solo come a un possibile enorme mercato in cui vendere le proprie merci e i propri servizi. Non ha senso nemmeno difendere il sistema Italia così com’è maturato, nel bene e nel male, negli anni passati. Dietro il boom dell’economia americana, che ormai viaggia al ritmo di 200 mila assunzioni al mese, c’è la paga modesta di Mc Donald’s, così come il “miracolo tedesco” si spiega anche con i mini-job da 450 euro al mese o con i 9,55 euro l’ora pagati da Amazon nei nove sterminati depositi in terra di Germania.

È inutile, insomma, indorare la pillola. La crisi ha ridotto i margini di redistribuzione degli Stati e ha aumentato il divario tra ricchi e poveri. In questa fase di transizione è necessario adeguarsi al new normal. Altrimenti si esce fuori dalla dinamica della ripresa. La politica ha il dovere di creare paracadute sociali il più possibile eguali per tutti sostituendo alle forme di tutela delle categorie meccanismi comuni, in grado di operare con efficacia.

Di certo, il disagio sociale esiste e ha ormai colpito il 30% circa della popolazione. Così com’è vero che l’Italia continua a galleggiare nelle fasce basse delle varie classifiche, dalla competitività all’efficienza della burocrazia o della macchina della giustizia. E così via. Ma il Bel Paese ha non pochi atout. Non ha alle spalle anni di crescita drogata, ha raggiunto un saldo attivo del fabbisogno, è in surplus della bilancia commerciale. Soprattutto chiude l’anno con l’exploit di Moncler. La matricola di Piazza Affari ha raccolto in sede di offerta prenotazioni da parte di 750 investitori istituzionali. Solo Twitter, nel 2013, ha saputo fare altrettanto: non c’è bisogno di “Destinazione Italia” quando fai le cose per bene. Come vorremmo che facessero, sempre, gli associati a Confindustria.