Pochi giorni fa è uscito su Vox.eu, il sito che raccoglie i lavori di economisti europei di un certo pregio, un lavoro curato da Fadi Hassane e Gianmarco Ottaviano dal significativo titolo “Così l’Italia ha disimparato a produrre”. Tra le varie cause del ritardo accumulato dal Bel Paese sul fronte della produttività, i due autori si soffermano anche sulla cattiva allocazione delle risorse: combinando i dati della produttività con le informazioni sui prestiti privati per tipologia di attività economica raccolti dalla Banca d’Italia, la ricerca afferma come non ci sia praticamente “alcuna correlazione tra la crescita dei prestiti e la crescita della produttività nei diversi settori tra il 1999 e il 2007”.



Quanto potrebbe essere costata questa cattiva allocazione? Secondo l’analisi degli autori, condotta seguendo standard internazionali, l’indice di produttività nel settore manifatturiero è del 5,77% più basso di quanto sarebbe se “le risorse produttive fossero state assegnate in modo casuale tra le imprese”. In altre parole, se avessimo dato alle imprese capitale e lavoro per poi ridistribuirli di nuovo casualmente, la produttività del settore manifatturiero in Italia sarebbe aumentata di quasi il 6%.



Val la pena di meditare di questi numeri alla vigilia dell’assemblea del Monte Paschi di Siena, dominata dalla preoccupazione di evitare che l’aumento di capitale della banca non corrisponda alla fine della presa della Fondazione sulla banca. In sintesi, com’è noto, se si procederà all’aumento di capitale della banca a gennaio, come previsto dagli accordi con i membri del consorzio, la Fondazione rischia di ridursi a percentuali da prefisso telefonico. Se l’operazione slitterà a primavera, come chiede l’ente che è ancor oggi l’azionista più importante, sarà possibile una ritirata più dignitosa e meno rovinosa. E la Fondazione potrà, con il sostegno del sistema e l’intervento di investitori internazionali, mantenere una quota rilevante nell’istituto.



Il verdetto, alla vigilia del palio più drammatico, è aperto a ogni risultato. Ma con quale effetto sull’economia? È davvero così importante il “radicamento locale della banca”? Fa impressione l’appello della Confindustria di Siena, ovviamente vicina al neo-presidente della Fondazione Antonella Mansi: “Non consegnate – si legge – il controllo della banca più antica del mondo al capitalismo finanziario internazionale”. E, rivolta alla Cassa depositi e prestiti, individuata come l’ultimo “cavaliere bianco” in circolazione: “È più consono che il Fondo strategico italiano investa in un asset strategico, la terza banca italiana, piuttosto che rincorrere aziende del lusso o di altri settori comunque non strategici”.

Ma dov’erano, vien da chiedersi, gli industriali senesi quando il Monte Paschi ha inanellato una serie di acquisizioni “sballate” e ha concluso gli accordi più opachi e onerosi con “il capitalismo finanziario internazionale”? Si è mai letta una nota della Confindustria senese che esprimesse un’ombra di dubbio a fronte di acquisizioni a caro prezzo, dalla Banca agricola mantovana a Banca 121 fino alla madre di tutti gli errori, cioè Antonveneta? In base a quale criterio un settore va definito strategico o meno? Perché le aziende del lusso, ben presenti nel tessuto economico della Toscana, non devono essere considerate strategiche nonostante il beneficio alla bilancia commerciale e il contributo all’occupazione?

Questa levata di scudi permette di apprezzare le indicazioni in arrivo dallo studio citato. È senz’altro ingeneroso attribuire al solo management bancario l’allocazione inefficiente delle risorse rilevata da Hassane e Ottaviano. A questo risultato, infatti, hanno contribuito le pressioni degli stakeholders, a partire dalla politica locale in collegamento con un tessuto imprenditoriale che non solo ha avuto poco coraggio nell’investire in innovazione, ma, altra tara italica, ha gestito le imprese senza attribuire importanza al merito, bensì privilegiando l’anzianità o criteri di appartenenza. Non è solo un problema di Monte Paschi, naturalmente. Ma la banca senese, crocevia di interessi politici e clientelari, è un po’ la punta dell’iceberg di un sistema che dalla metà degli anni Novanta in poi ha perso colpi nella competizione internazionale. Per motivi di governance più che per mancati investimenti.

Il tracollo di Siena, insomma, non è frutto di un complotto internazionale, così come non è il frutto di uno scandalo tradizionale, conseguenza diretta di un “furto”. Semmai, è il risultato di errori che nascono da radici lontane, già ampiamente esplorate, che affondano sia nel tessuto locale che negli equilibri di sistema. Crea sospetto l’insistenza della Fondazione a restar legata anche in futuro alla banca, quasi che l’ente non abbia vocazione alcuna al di fuori di questo accordo “siamese”.

Ora, una volta consumata la crisi, occorre fare i conti con una realtà ben diversa. Può darsi che le Fondazioni più ricche, Compagnia di San Paolo e Cariplo, oltre a Cariverona, decidano di scendere in campo al fianco della consorella di Siena. Oppure che Cdp, con una grave forzatura sullo statuto, sia obbligata in qualche maniera a sostenere un soluzione “italiana”. Le soluzioni di sistema, si sa, percorrono le vie più impensate. Ma in ogni caso una qualsiasi deviazione dalla strada maestra dell’aumento di capitale a gennaio, prima delle turbolenze legate a un voto europeo che si annuncia elettrico (in particolare per le reazioni dei mercati) sarebbe un pessimo spot per le banche italiane all’avvio degli stress test previsti dall’Unione bancaria.

Meglio, in assenza di alternative, cedere all’aumento di capitale. O procedere sulla strada della nazionalizzazione a termine, come è avvenuto per altre banche in Europa e negli Usa.