Secondo il Centre for Economics and Business Research (Cebr) di Londra, nel 2028 il Pil della Cina supererà quello degli Stati Uniti. Così Pechino diventerà ufficialmente la prima economia mondiale. Un sorpasso che tuttavia avverrà più tardi del previsto, in quanto la crescita del Dragone (che quest’anno sarà comunque del 7,6%) sta subendo rallentamenti. Non solo. Nei prossimi quattro anni tutte le economie emergenti faranno un balzo in avanti: Russia, India, Messico, Corea, Turchia entreranno tutte nei primi 15 posti. E ancora, in quindici anni l’India scavalcherà il Giappone e la Gran Bretagna farà meglio della Germania. Per l’Italia, invece, gli analisti del Cebr prevedono l’ennesimo crollo verticale: nella graduatoria delle nazioni con il reddito più elevato il Bel Paese scivolerà dall’8° al 15° posto. A Leonardo Becchetti, docente di Economia politica presso l’Università di Roma Tor Vergata, abbiamo chiesto di commentare questi dati.
Sorpreso?
In questo periodo una grande quantità di studi converge su questo punto. Basta vedere il rapporto dell’Undp (Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, ndr) pubblicato qualche giorno fa.
Cosa dice quel rapporto?
Che sta per concludersi la fase della distribuzione cosiddetta “twin peaked” della ricchezza e stiamo assistendo alla progressiva emersione della classe media mondiale. Come prevedevano gli studiosi della crescita, siamo in un periodo di “convergenza condizionata”.
Cioè?
Da quasi vent’anni i paesi poveri stanno crescendo più di quelli ricchi. Il loro rapido evolversi sta portando a una ridistribuzione del reddito e all’emergere di una nuova classe media mondiale. Si sta cioè concludendo il periodo del cosiddetto “twin peaks”, nel quale la distribuzione della ricchezza aveva due massimi: da una parte c’erano i ricchi, dall’altra tutti i poveri. Adesso la distribuzione si sta uniformando e sta crescendo sempre di più la classe media. La parte centrale del grafico ha registrato una crescita dell’80% del proprio reddito mentre la parte medio-ricca ha avuto una crescita quasi pari a zero. C’è stato dunque un forte recupero. In più…
In più?
C’è stato anche uno spostamento dell’asse di potere. Fino al 1860, infatti, l’output di Cina e India era superiore a quello dei sette paesi occidentali più sviluppati. In seguito la situazione si è ribaltata a favore dell’Occidente. Ora si prevede che nel 2015 Brasile, Cina e India supereranno di nuovo i paesi occidentali più sviluppati. Assistiamo quindi a un forte riequilibrio a livello mondiale.
Come spiega il superamento di Londra su Berlino? La Germania è pur sempre la prima manifattura d’Europa, mentre Londra è una piazza finanziaria: vuol dire che la finanza avrà un peso ancora maggiore?
C’è un articolo molto interessante di Quadrio Curzio pubblicato su Il Sole 24 Ore che fa i conti proprio con questi argomenti. A ogni modo, durante la crisi i paesi che avevano la flessibilità del cambio e la disponibilità della politica monetaria e fiscale, quindi la piena sovranità economica, hanno manovrato con molta più agilità per far fronte alle difficoltà. E hanno avuto una crescita del Pil nettamente superiore rispetto agli altri paesi; mentre quelli dell’area euro si sono “ingessati”. Un po’ per i vincoli dell’euro, un po’ per politiche sbagliate. Da tempo sostengo che gli Stati Uniti hanno capito benissimo qual è il dividendo monetario della globalizzazione.
In cosa consiste questo dividendo?
Nella possibilità di stampare moneta senza creare inflazione, ma per stimolare la domanda interna e far ripartire l’economia. L’Europa invece non l’ha capito e ha imboccato la strada dell’austerità. Commettendo un errore clamoroso. Infatti, la disoccupazione negli gli Stati Uniti oggi è sotto il 7% mentre da noi, in media, siamo al 12%. È vero che da questa direzione si sta cercando di tornare parzialmente indietro, con grande fatica in verità, ma, secondo, me l’Europa deve fare molto di più
Cosa dovrebbe fare l’Europa?
Imboccare molto più rapidamente la direzione di una banca centrale stile Fed, che metta al centro il tema della disoccupazione e sia più “aggressiva” nello stampare moneta.
Stando ai dati del Cebr nel 2028 l’Italia scivolerà dall’ottavo al quindicesimo posto nella graduatoria dei paesi con reddito più elevato. Una crollo impressionante.
Lo sappiamo purtroppo, non è altro che la fotografia di quello che sta succedendo al nostro Paese. L’Italia, ripeto, paga sia la politica di austerità, e pagherà ancora di più se dovrà rispettare il Fiscal compact, e paga la difficoltà di trovare una sua collocazione nella fase della post globalizzazione. È chiaro che i paesi ricchi si devono, diciamo, reinventare.
In che modo?
Non puntando su commodities che si possono ottenere a costi molto inferiori in zone povere del mondo, ma su quelli che chiamo i fattori competitivi non delocalizzabili, quindi tutto ciò che non è facilmente riproducibile in paesi con basso costo del lavoro. Penso in particolare a tutto ciò che riguarda la tecnologia, il territorio, l’ambiente, il turismo, la cultura, i prodotti doc, ecc. In Italia siamo di fronte a questa duplice situazione.
Quale situazione?
Nel nostro Paese c’è una parte dinamica rappresentata dalle aziende, sia medio-grandi che distrettuali, che esportano; dall’altra, purtroppo, ci sono quelle che, lavorando sul mercato interno, subiscono in maniera drammatica il crollo del mercato. Che, ancora una volta, non dipende solo dai nostri errori ma anche da politiche macroeconomiche che hanno imposto troppa austerità.
Il declino è inevitabile?
No. Dobbiamo da una parte migliorare il nostro sistema-Paese e colmare il gap prendendo come riferimento i modelli migliori del nord Europa. Ad esempio, sulla diffusione della banda larga, sul senso della giustizia, della Pubblica amministrazione. Dall’altra dobbiamo, tra virgolette, battere i pugni sul tavolo e chiedere che l’Unione europea faccia politiche di tipo diverso.