Dopo mesi in cui ogni nuovo dato sull’economia era sempre e solo sconfortante, finalmente una buona notizia. Una piccola notizia, a dire il vero, ma pur sempre buona: secondo le rivelazioni di Markit, l’indice Pmi di oltre 400 aziende manifatturiere (registra le sensazioni e il clima di fiducia tra i responsabili acquisti) è salito a 51,4 punti, dai 50,7 di ottobre. L’indice dell’Eurozona, invece, è cresciuto dai 51,3 punti di ottobre agli attuali 51,6. Abbiamo chiesto a Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, come interpretare questi dati.
Si tratta di un buon auspicio?
Il dato è coerente sia con le indicazioni che provengono dagli ordini dell’industria rilevati dall’Istat, che con le anticipazioni del Centro studi di Confindustria. Si dà per scontato che si è toccato il fondo, e siamo all’inizio di una fase di ripresa che sarà decisamente lenta.
Perché?
Perché si tratta di una ripresa innestata sulla terra bruciata. E non mi riferisco tanto alle delocalizzazioni, quanto al taglio della capacità produttiva, che era stata misurata per rispondere a quote di domanda interna ed esterna. La prima è calata del 30-40%; la seconda, pur avendo dato un certo sollievo, non è stata tale da garantire l’equilibrio. La circostanza è stata determinata da un’austerità che ha martirizzato il nostro mercato in un modo in cui non ci era riuscita, probabilmente, neanche una guerra mondiale.
L’aumento dell’indice, infatti, deriva esclusivamente dall’export.
Certo. Il problema è che neppure la domanda estera può viaggiare a pieno regime. L’export italiano soffre non solo rispetto al mercato europeo, ma anche a quello internazionale. L’economia mondiale, infatti, è ormai un insieme di vasi comunicanti. Per intenderci, se l’Europa tira la cinghia per l’austerità, importa meno dalla Cina. La quale, a sua volta, se vede calare le proprie esportazioni dovrà ridurre le importazioni dall’Europa.
A fronte di questa situazione, perché ci dovrebbe essere la ripresa in Italia?
Il cittadino ha subito la stangata dell’Imu nel 2011, l’ha risubita nel 2012, non sa ancora quanto dovrà pagare nel 2013 e nemmeno nel 2014, e gli è stata aumentata per due volte l’Iva; è un po’ come un soldato in trincea: alla prima raffica di colpi resta paralizzato dalla paura. Alla seconda, inizia ad abituarsi. Alla terza, anche se non gli fanno piacere i proiettili, ci ha fatto il callo. Tradotto: quando il consumatore ha chiaro il quadro della situazione sulle tasse che gli potrebbero arrivare, sui sacrifici che dovrà compiere e sui rischi – anche nei termini di perdita di posto del lavoro – che dovrà assumersi, inizia ad abituarsi.
E quindi?
Quindi, smaltita la paura iniziale che gli ha fatto finora accantonare ogni singolo centesimo, riprende a spendere. Anche se, ovviamente, meno di prima. Tale clima di fiducia, se si consolida, può innescare la ripresa. Anche se, specialmente in una prima fase, senza occupazione.
La ripresa vera potrà mai esserci?
Abbiamo un governo che continua a ribadire che la stabilità è importante per potere arrivare con i conti a posto e con i compiti fatti al semestre europeo, in modo da potere iniziare a negoziare uno sviluppo diverso per l’Europa. Non dimentichiamo che, fino a non molto tempo fa, il nostro governo non poteva neanche entrare in una stanza senza che gli altri paesi europei iniziassero a ridere. Dopo 3 anni di fila con il rapporto deficit/Pil sotto il 3% (impresa che non è riuscita alla Francia, all’Olanda, alla Gran Bretagna e alla Spagna), potremo sederci a un tavolo e far valere le nostre ragioni.
Come?
Facendo presente che il nostro problema non è di certo la mancanza di competitività (come invece afferma Olli Rehn) e che il nostro surplus commerciale manifatturiero raggiungerà, nel 2013, quota 110 miliardi di euro. Solo la Germania, in Europa, farà meglio di noi. A fronte di queste considerazioni, potremmo far presente che i nostri problemi derivano unicamente dal fatto che la Commissione europea ci ha obbligato a distruggere il nostro mercato interno con l’austerità.
(Paolo Nessi)