Sarebbe il colmo se gli squali di Wall Street salvassero l’Italia. Eppure, Fabrizio Saccomanni si è rivolto proprio a loro per sciogliere una serie di nodi che, da soli, siamo destinati a tenerci. Il ministro dell’Economia, in particolare, dopo aver incontrato gli uomini di Citigroup e George Soros, ha spiegato, interpellato da Repubblica, che gli americani potrebbero darci una mano su due fronti: investendo nelle banche italiane per alleggerirne le sofferenze e aiutandoci nella gestione del patrimonio immobiliare da vendere. Abbiamo chiesto a Carlo Pelanda, professore di Politica ed Economia internazionale nell’Università della Georgia, cosa ne pensa dell’ipotesi.
C’è il rischio di svendite agli americani?
La svendita è tale se riguarda aziende la cui alienazione determina uno svuotamento di capacità produttiva, conoscenza tecnologica e lavoro. Aziende di questo tipo vanno presidiate nei termini di interesse nazionale: la concorrenza, infatti, acquista per ridurne il perimetro economico. Tutto il resto, invece, va salutato positivamente.
Eppure, più volte si è parlato di Eni, Enel, Finmeccanica e via dicendo.
Direi, infatti, che è escluso che possano fuoriuscire dal controllo dello Stato, il quale può continuare a mantenerlo anche con quote di minoranza.
Il ministro è convinto che gli americani possano aiutarci con le cartolarizzazioni. Lei, professore, parlava di cartolarizzazioni sintetiche già nel ’97. Cosa suggerisce al ministro?
Anzitutto, non è necessario vendere subito. Il patrimonio immobiliare va valorizzato, ponendolo come garanzia di una società che emetta obbligazioni al servizio della riduzione del debito. La vendita immediata, invece, determinerebbe un incasso ben inferiore rispetto al suo potenziale.
Gli americani, invece, come agiscono?
Beh, non agiscono in maniera troppo dissimile. Ma le loro operazioni, in tal senso, sono costose e non del tutto efficienti. Insomma, lì la cultura finanziaria è decenni avanti. Tuttavia, sulle cartolarizzazioni di nuova generazione, in Europa esistono nuovi istituti, autorizzati dall’autorità lussemburghese nel 2013, che hanno innovato nella gestione dei patrimoni cartolarizzati in misura ben superiore agli Usa.
Altra cosa di cui il ministro è convinto, è che soggetti Usa possano investire nelle nostre banche, farsi carico dei loro crediti deteriorati, e consentire loro di sbloccare il credito a famiglie e imprese.
E ha ragione. Si tratta di operazioni non così dissimili dalle cartolarizzazioni. La banca, infatti, per liberarsi del credito deteriorato non deve necessariamente svenderlo. Può affidarlo a esperti che lo gestiscano come un qualunque altro prodotto finanziario.
Cosa intende?
Nel mondo della finanza, un prodotto “bad” è pur sempre, a tutti gli effetti, un prodotto finanziario. Nella cultura americana e in quella inglese, quindi, se gestito adeguatamente rappresenta un’occasione di business. In questo, gli americani sono effettivamente molto bravi. Anche se abbastanza costosi. E, a onor del vero, anche in tal caso, in Europa sono stati istituiti degli strumenti di cartolarizzazione bancaria decisamente più avanzati, sicuri ed efficaci di quelli americani. Resta il fatto che Saccomanni fa molto bene a mostrare loro opportunità che il nostro Paese può rappresentare per una finanza evoluta.
A quel punto, le banche riprenderebbero realmente a prestare soldi a famiglie e imprese?
Indubbiamente. Finché le banche hanno dei crediti in sofferenza, sono obbligati dal regolatore a mettere a copertura di tali sofferenze delle risorse che, ovviamente, vengono distratte dall’erogazione di liquidità a imprese e famiglie.
La Spagna, dal momento che l’Unione europea sostiene che ha riformato meglio di noi, può rappresentare un temibile concorrente nell’attrazione di investimenti bancari?
Direi di sì. La Spagna, sul fronte economico, è messa molto peggio di noi. Tuttavia, dispone di istituzioni più autorevoli e credibili, di una burocrazia funzionante e della certezza del diritto. Rappresenta, quindi, per gli investitori stranieri un business molto più vantaggioso.
(Paolo Nessi)