Ancora un no, l’ennesimo. I prodotti finiti e semilavorati dell’Ilva di Taranto, fermi da tempo sulle banchine del porto, rimarranno dove sono. Lo ha stabilito il gip Patrizia Todisco, tornato a esprimersi sulla possibilità di dissequestro richiesto dall’azienda pugliese il 22 gennaio scorso. La situazione, intanto, si fa sempre più critica: da un lato vi è il concreto pericolo che possano iniziare le procedure per la dichiarazione di fallimento, dall’altra centinaia di dipendenti attendono una risposta riguardo il pagamento degli stipendi, erogati solitamente al 12 del mese. Abbiamo chiesto un commento a Aristide Police, docente di Diritto amministrativo presso l’Università Tor Vergata di Roma.



Professore, come giudica l’attuale situazione? 

Lo scenario è evidentemente critico. Se l’azienda non è messa in condizione di poter commercializzare quei prodotti che al momento sono oggetto di sequestro, dovrà necessariamente interrompere la produzione, con tutte le conseguenze industriali e sociali che ciò inevitabilmente comporta. C’è poi un altro danno estremamente rilevante.



Quale?

Arrivati a questo punto, tutti i rapporti commerciali in essere dell’azienda sono destinati, se non è già avvenuto, a essere interrotti. I committenti dell’Ilva si rivolgeranno ad altre aziende per acquistare i materiale necessari che, come sappiamo, sono destinati ad altri processi produttivi, visto che nessuno potrà rimanere così a lungo in attesa delle decisioni giudiziarie sulla legittimità costituzionale delle norme. Il danno, quindi, non solo è gravissimo, ma è anche difficilmente riparabile in futuro, laddove questi prodotti dovessero essere dissequestrati.

Quali sono gli aspetti, aziendali o giuridici, che la convincono di meno?



Dal punto di vista aziendale, credo che attualmente il management stia operando nel modo più corretto possibile, anche perché al momento quella dell’Ilva è una delle attività aziendali sottoposta al più attento scrutinio da parte delle varie istituzioni, sia ministeriali che della magistratura. Quello che viceversa è davvero preoccupante è il profilo giuridico.

Come mai?

Perché a fronte di un decreto legge che, per ragioni di urgenza conclamata, poneva un rimedio, sia pur temporaneo, a questa situazione con una serie di garanzie procedimentali e amministrative volte ad attuare forme di contenimento e risanamento ambientale, il solo sospetto della sua legittimità costituzionale determina l’effetto di vanificare ogni rimedio messo in campo.

Si spieghi meglio. 

In attesa di una pronuncia della Corte costituzionale, ipotizzare che un decreto legge, adottato per ragioni di urgenza, venga totalmente ignorato e disapplicato da un giudice senza che in tal senso si pronunci l’unico organo deputato a fare valutazioni di questo genere, cioè la stessa Consulta, credo sia molto grave. Inoltre questo rende impossibile e quindi inutile l’utilizzo stesso della decretazione d’urgenza, in evidente contrasto con la chiara esigenza che, saggiamente, il costituente aveva intravisto in una situazione tanto problematica.

 

Come crede potrà risolversi l’intera vicenda?

E’ inutile continuare ad alimentare questo “braccio di ferro” tra governo e Procura, ma credo che la Corte costituzionale, forzata da questi eventi, dovrà farsi carico di un supplemento di responsabilità istituzionale e accelerare la discussione, nei limiti delle compatibilità processuali, per dirimere questo conflitto e per far sì che si possa tornare a ragionare in termini di tutela degli interessi collettivi con un certo grado di serenità.

 

(Claudio Perlini)

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