Internazionalizzazione ed export restano gli elementi chiave per permettere a molte imprese di affrontare la fase di recessione che il nostro Paese sta attraversando. Basti pensare che ci sono alcuni comparti della nostra manifattura che esportano fino al 90% della loro produzione. Ce lo conferma in questa intervista Giancarlo Losma, Presidente di Federmacchine, la federazione delle associazioni dei produttori di beni strumentali destinati allo svolgimento di processi manifatturieri dell’industria e dell’artigianato.
Presidente Losma, se dovesse disegnare l’identikit del settore che rappresenta, cosa direbbe?
Con 3.300 imprese e un fatturato pari a 28 miliardi di euro, l’industria italiana del bene strumentale rappresenta uno dei fiori all’occhiello del made in Italy nel mondo. Generalmente e più facilmente identificata con moda, design e food, la produzione italiana, infatti, ha nel bene strumentale piena espressione di eclettismo, creatività e qualità. Doti, queste, che permettono all’industria di comparto di recitare un ruolo da protagonista nello scenario internazionale e di contribuire in modo determinante all’economia del Paese. Sono i numeri a dimostrarlo… come d’altra parte ricordano molti economisti, primo fra tutti il professor Fortis che spesso interviene su queste pagine.
Quali numeri in particolare?
Ne basta uno su tutti. Per comprendere il contributo del settore all’economia del Paese guarderei alla bilancia commerciale italiana. Risultata, nel 2011, in passivo per 24,6 miliardi di euro, il saldo della bilancia commerciale è stato appesantito dai negativi riscontri provenienti da tutti i principali settori manifatturieri, con la sola esclusione dei comparti abbigliamento e arredamento (risultato in attivo per 24,6 miliardi di euro) e di quello macchine e apparecchi meccanici, nel quale sono compresi i macchinari di produzione, che ha segnato un attivo di 44,4 miliardi di euro. Bel risultato, direi, che testimonia la capacità di realizzare prodotti di qualità molto apprezzati dal mercato straniero, oggi più performante, pur mantenendo il presidio di quello interno.
Parliamo allora di export.
Guardi, il settore del bene strumentale è per definizione fortemente orientato alle vendite all’estero. A fronte di una propensione media all’export risultata, nel 2011, pari al 74%, vi sono comparti che fanno capo a Federmacchine che esportano l’80%, il 90% della produzione realizzata; è il caso delle macchine tessili e di quelle per imballaggio. Dati, questi, che la dicono lunga sulla capacità dei costruttori di intercettare le esigenze di una domanda particolarmente variegata per provenienza geografica e culturale e, al tempo stesso, confermano la persistente debolezza della domanda italiana.
In Italia non si consumano più beni strumentali?
No, non è proprio così, ma la crisi ha duramente inciso sul mercato italiano che si è decisamente ridimensionato. Le industrie lavorano meno, alcune hanno fermato l’attività, quelle in salute hanno diradato gli investimenti in beni strumentali in attesa di certezze su una possibile ripresa dei consumi: un fenomeno da cui pare difficile uscire, soprattutto senza misure adeguate a incentivare e rassicurare il rilancio dell’industria reale. Come titolava un noto quotidiano economico qualche giorno fa: “Occorre rimettere al centro la manifattura”.
E come?
Penso a misure concrete, capaci di ridare slancio a un sistema che è da troppo tempo in debito di ossigeno. In questo senso vedo bene un provvedimento come la detassazione totale degli utili reinvestiti, pensato per divenire strutturale e favorire così un nuovo ciclo di innovazione della manifattura. Il principio base della proposta, a mio avviso, prevede l’esclusione, dall’imposizione sul reddito d’impresa, dell’ammontare degli investimenti in beni strumentali, individuabili come investimenti innovativi. Complementare a questa misura dovrebbe essere quella della liberalizzazione delle quote di ammortamento, le cui aliquote vanno comunque attualizzate, che non inciderebbe, nel medio termine, sulle casse dello Stato, poiché il provvedimento implica soltanto la traslazione degli incassi per l’erario. Se queste misure risultassero essere di difficile attuazione in un momento in cui il tema della quadratura dei conti dello Stato rimane prioritario, chiediamo che sia ripensato un provvedimento sul modello della legge 1329/65 (Sabatini), che molto ha concorso all’industrializzazione del Paese, e che, su base nazionale, permetta all’acquirente di dilazionare il pagamento del bene fino a cinque anni a un tasso agevolato.
Detassazione utili reinvestiti in beni ad alta tecnologia, liberalizzazione delle quote di ammortamento, agevolazioni per investimenti in beni strumentali, tutte misure rivolte a sostenere il risveglio della domanda locale…
L’intento di Federmacchine, federazione cui si riferiscono ben dodici associazioni di categoria in rappresentanza di altrettanti settori industriali, è quello di accendere la luce su uno dei problemi più gravi per il nostro Paese: la perdita di competitività e la perdita del manifatturiero. Senza l’industria di produzione l’Italia non può garantire un futuro adeguato alle nuove generazioni. E in effetti il fenomeno di abbandono del Paese da parte dei giovani è oggi in continua crescita, complice proprio la mancanza di lavoro. D’altra parte l’arretramento tecnologico e la de-industrializzazione sono fenomeni oggi pericolosamente diffusi nell’Eurozona, che si è per lo più concentrata sulla crescita dell’economia della conoscenza senza che questa fosse accompagnata da quella industriale. In questo senso l’Italia e l’Europa devono ripensare velocemente a un piano di sviluppo del manifatturiero, unico capace di generare occupazione.
Italia e Europa: quale rapporto?
Un rapporto stretto e trasparente, direi di reciproca collaborazione. L’Italia è, insieme alla Germania, Paese pilastro del manifatturiero del vecchio continente: lo dicono i dati Eurostat. Investimenti in ricerca e innovazione applicata alla manifattura sono gli ingredienti indispensabili per sostenere il ruolo da top player che da sempre riveste nel panorama internazionale. Se le imprese molto stanno facendo in questo senso, a dir la verità non solo quelle italiane, occorre che l’Unione europea incrementi, per esempio, l’attività di monitoraggio e controllo del mercato, verificando attentamente i prodotti in ingresso alle dogane, affinché siano rispettati i criteri di qualità e sicurezza previsti dai regolamenti. È un modo per tutelare la Comunità da eventuali rischi per la salute e per tutelare gli interessi delle imprese europee, assicurando una corretta competizione.
Si parla tanto di internazionalizzazione. Quanto le imprese del settore si sono addentrate in questo territorio?
Molto direi. Anche se tanto è ancora da fare. Se in un settore come quello del bene strumentale l’export resta ancora il primo sistema di internazionalizzazione, sono sempre più numerosi i casi di presidio diretto di territori, vicini e lontani, attraverso creazioni di filiali e stabilimenti produttivi, per non parlare poi dei casi di joint venture. A queste si aggiungono iniziative speciali. Federmacchine ha sostenuto, per esempio, la creazione dell’Itc – Italian Technology Center – a Pune, in India. Nuovo tassello di un più ampio piano programmatico denominato Piattaforma India, l’Itc di Pune vede riunite in un contratto di rete ben 13 imprese italiane, aderenti a due delle dodici associazioni di Federmacchine (Ucimu-Sistemi per produrre e Assocomaplast). Il Centro assicura una presenza locale strutturata alle aziende, facilitandole nell’attività di penetrazione in uno dei mercati più promettenti per il bene strumentale italiano quale è l’India. Nato con l’obiettivo di sostenere l’attività di promozione, e quindi di sviluppo commerciale, Ict fornirà in futuro anche assistenza tecnica alle aziende consorziate.
Pensa che occorrano degli interventi particolari dello Stato per aiutare le imprese nel processo di internazionalizzazione?
A fronte dell’operato delle imprese sostenute in questo dalla stessa federazione che, per tradizione agisce secondo il principio della sussidiarietà, Federmacchine prosegue con l’attività di rappresentanza che da sempre la contraddistingue sottolineando la necessità, anche sul fronte estero, di attuare politiche e programmi in grado di rendere più agevole, o meno difficoltoso, l’attività delle imprese italiane. In particolare, per favorire e incentivare l’attività di export chiediamo l’introduzione del provvedimento che permette la riduzione del pagamento dell’Irap sul personale per una percentuale pari alla quota di produzione destinata ai mercati stranieri. Contestualmente, Federmacchine che, fin dal momento della soppressione aveva richiesto il suo immediato ripristino, chiede che Ice-Agenzia sia dotata dei fondi necessari a attività di promozione dei settori industriali del paese, per agevolare l’operato delle imprese nei mercati stranieri.