Ben 6.500 lavoratori dell’Ilva finiranno in cassa integrazione a partire dal 3 marzo, per una durata di 24 mesi. E’ quanto ha fatto sapere la stessa dirigenza aziendale, la quale ha spiegato che la decisione è legata all’Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia) che prescrive la bonifica degli impianti. Per Giulio Sapelli, professore di Storia economica all’Università di Milano, “quella che si sta consumando a Taranto è una vera e propria tragedia per la società pugliese e italiana”.
Quali sono state le premesse di quella che lei definisce una tragedia?
E’ una vicenda che ha dell’incredibile e che può succedere solo in Italia. L’Ilva di Taranto era una delle industrie siderurgiche più grandi e avanzate al mondo, presa a esempio dallo stesso Giappone. Viene privatizzata con procedure molto contestabili e data in mano ai Riva, i quali nascono come “rottamatori” e nella loro storia imprenditoriale non sono mai stati in grado di esercitare tecnologie di questo tipo.
Che cosa ha portato allo sforamento dei limiti di sicurezza ambientale?
Quando l’Ilva apparteneva all’Iri – me lo ricordo personalmente – era un’industria nella quale si poteva mangiare per terra, tanto gli stabilimenti erano puliti. Non c’erano quei terribili ammassi di materiale ferroso lasciati all’aperto, esposti ai venti in una città di mare, fonte quindi dell’inquinamento da cui poi è nata l’inchiesta. Le stesse aree a caldo producono inquinamento soltanto se non c’è manutenzione e se non si utilizzano materiali di prima qualità.
Quindi che cosa è successo?
Mentre l’Iri aveva mantenuto gli stabilimenti di Taranto in un ottimo stato, per la furia iconoclasta della privatizzazione l’Ilva è stata consegnata a una famiglia privata che non era all’altezza di poter gestire un impianto di questo tipo. E’ la stessa dinamica cui abbiamo assistito con la famiglia Lucchini, che ha ricevuto in eredità parte degli impianti siderurgici Magona, un’industria del 700 che ha sempre ottenuto buoni risultati. I Lucchini l’hanno portata però in una situazione drammatica, sull’orlo di fallimento e amministrazione controllata.
Per quali motivi l’Ilva è stata privatizzata?
Si è privatizzata per abbassare il debito pubblico, ma non è servito a nulla in quanto tutte le privatizzazioni degli anni 90 hanno inciso solo per l’8% dello stesso debito. La vicenda Ilva si inserisce in un errore strategico: si sono privatizzate queste imprese anche perché si pensava che il loro futuro non fosse particolarmente florido. Si è quindi stabilito che era necessario affidarne la ristrutturazione ai privati, affinché la classe politica pagasse un prezzo meno alto in termini di consenso. La storia ha dimostrato però che lo sviluppo di Cina e India ha fatto crescere la domanda di acciaio. Ciò è vero al punto che gli indiani sono venuti in Italia per acquistare gli stabilimenti Mittal, mentre i cinesi giravano per le montagne della Bergamasca per acquistare il rottamato.
Veniamo al comportamento della magistratura. Condivide le critiche rivolte da diversi commentatori?
La vicenda Ilva si inserisce nello squilibrio dei poteri tra politica, magistratura ed economia. C’è stato un lungo susseguirsi di decisioni discordanti, con i giudici che hanno bloccato la fabbrica, un decreto/legge che ha liberato i materiali presenti in magazzino, una ulteriore azione di sequestro della magistratura. Si è quindi creata un’incertezza nello Stato di diritto e nei poteri pubblici, dividendo la città tra i sostenitori della salute e quelli dei posti di lavoro.
Come valuta l’atteggiamento tenuto da Vendola?
Vendola avrebbe dovuto farsi sentire di più nei confronti della proprietà, sia per quanto riguarda gli ammanchi sia per le emissioni inquinanti. Per fare un’analogia, è come quando si abbattono le palazzine abusive, ma non si applica nessuna sanzione sugli uffici tecnici dei Comuni e sui sindaci che hanno permesso l’abusivismo.
Si aspettava che saremmo arrivati a questa conclusione?
Lo temevo, perché il piano di ristrutturazione è attuato in condizioni critiche e ci troviamo nel mezzo di una crisi mondiale caratterizzata dalla sovrapproduzione. Per ora però la principale responsabilità è di una magistratura che dovrebbe essere più competente, conoscere l’industria ed essere più rispettosa delle leggi.
(Pietro Vernizzi)