Andrea Riello, 50 anni appena compiuti e 25 di attività in azienda testimoniano la passione dell’imprenditore veronese che, in un quarto di secolo, ha trasformato l’azienda leader nel settore delle macchine utensili in una vera e propria multinazionale tascabile. Come? Con un motto “The best shop in the town”. Scegliendo (o cercando) le persone migliori per le posizioni strategiche.



Dottor Riello, il suo è un nome storico nel panorama industriale italiano.

Sì, la Riello Sistemi è nata nel 1963, quest’anno celebreremo dunque il cinquantesimo anniversario della sua attività nella quale sono impegnato direttamente da 25 anni. Era il 1988 quando ne ho preso la guida; l’azienda al tempo aveva un fatturato di 10 miliardi di lire e aveva 110 dipendenti. Oggi, il Gruppo Riello Sistemi, dopo la cessione dell’impresa tedesca, avvenuta circa un anno fa, conta tre stabilimenti di produzione, cinque filiali dirette, 347 dipendenti e circa 100 milioni di euro di fatturato.



Com’è avvenuta la crescita?

Secondo due direttrici: una endogena e una esogena. Partiamo dalla seconda che si è concretizzata in un piano articolato di acquisizioni cominciato, nel 2000, con l’acquisto della Mandelli Sistemi spa di Piacenza, brand che nell’immaginario collettivo da sempre riconduce al settore delle macchine utensili. Successivamente, era il 2005, è entrata a far parte del gruppo la Tri-Way, storico costruttore Nord Americano di macchine speciali, basata a Windsor in Canada, nel cuore della meccanica made in Usa. Il gruppo, e veniamo alla seconda direttrice, è poi cresciuto per “crescita” delle singole realtà che ne fanno parte.



Il passaggio da piccola a media azienda e infine a gruppo internazionale avrà sicuramente comportato un differente modo di guidare la società…

Da subito, da direttore generale della Riello Sistemi, mi fu chiaro che l’unica strada per poter vincere la sfida del mercato fosse la crescita, per sopravvivere anzitutto. Restare fermi nella propria posizione significava, già allora, essere sovrastati dai concorrenti. Un rischio che è poi divenuto certezza nel 2000 quando ci si trovò a operare nel mercato globale. Cambiare passo era una decisione da cui non potevo prescindere: il gruppo e le realtà che ne facevano parte dovevano essere sufficientemente strutturate per assicurare il presidio diretto dei mercati stranieri e dunque la vicinanza all’utilizzatore, per la vendita e il service, fattore strategico soprattutto in un settore come quello dei sistemi di produzione.

Ha trovato delle difficoltà in questo percorso?

La vera difficoltà era trovare la giusta misura di organizzazione: un mix tra artigianale e industriale, capace cioè di sintetizzare le potenzialità della prima con quelle della seconda. Efficienti e strutturati come i principali competitors stranieri – statunitensi, giapponesi e tedeschi – ma flessibili e rapidi nel rispondere all’evoluzione della domanda come solo gli italiani sanno fare. Il conservare il nostro Italian way of doing applicandolo a un modello organizzativo più complesso è stato il principio che ho seguito in questi anni.

 

Può già fare un bilancio?

 

No, assolutamente. Fare un bilancio significa dirsi arrivati, invece tutti i giorni ci sono nuove sfide da affrontare. Direi che se, almeno in parte perché si può sempre migliorare, sono riuscito nell’intento lo devo anche a tutti coloro che mi sono vicini ogni giorno in questa attività. La scelta più difficile riguarda proprio la selezione delle persone che faranno parte della tua squadra. Per me è fondamentale scegliere “The best shop in the town”, il meglio a disposizione nel contesto in cui operi e, devo dire, che oggi posso dire di avere uno staff adeguato e preparato.

 

In questi 25 anni di attività da imprenditore si è impegnato direttamente anche nel sistema associativo, prima da presidente dell’Ucimu, l’associazione confindustriale che rappresenta i costruttori italiani di macchine utensili, e della Confindustria del Veneto poi. Cosa le ha dato questa esperienza?

 

Anzitutto occorre dire che il principio dell’associazionismo, soprattutto per quello che riguarda le categorie come nel caso dell’Ucimu, è – e deve essere inteso – più come “dare” che come “ricevere”. Con questo spirito mi sono avvicinato all’associazione che ho guidato dal 2000 al 2004. A conti fatti poi, in effetti, credo di aver ricevuto più di quanto abbia dato. Detto ciò, il grande valore che deriva dalla partecipazione a un’associazione come Ucimu è la possibilità di confronto e discussione con colleghi che vivono situazioni e problematiche vicine alle proprie; lo scambio di opinioni e la condivisione di idee con imprenditori il cui punto di vista è simile al proprio, ma non identico. Questo direi ai colleghi: partecipare attivamente alla vita associativa è un modo per ampliare la propria visione, aprirsi a un mondo che va oltre i confini della propria azienda per offrirle nuovi percorsi di crescita, non solo dimensionale.

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