A occhio, tutto sembra destinato a volgere al peggio. L’indice grezzo della produzione industriale del 2012, rivela l’Istat, risulta pari a 82,9, il dato più basso dal 1990; rispetto al 2011, poi, si è registrato un calo del 6,7% mentre, sul 2008, del 25%. Il trend negativo è confermato da un’analisi di Intesa Sanpaolo-Prometeia, secondo cui, nell’anno appena trascorso, il nostro sistema industriale ha ottenuto 37 miliardi di ricavi in meno rispetto all’anno precedente. Come sempre, al danno si aggiunge la beffa: nonostante tutto, il nostro tessuto manifatturiero è solido; non fosse che a minarne pervicacemente la sopravvivenza ci pensa lo Stato, nei confronti del quale le imprese italiane vantano 79 miliardi di euro di crediti non esigibili. Sia il Pd che il Pdl hanno promesso che, in caso di vittoria porranno rimedio alla situazione. Il primo, con un piano di emissione straordinaria di Btp, attraverso i quali reperire risorse per liquidare 10 miliardi all’anno. Il secondo, con 100 miliardi di euro da restituire fin da subito, nella convinzione che, in ogni caso, si tratta di soldi attualmente occultati dal bilancio pubblico solo grazie a un artifizio contabile. In entrambi i casi, occorrerà rinegoziare con l’Europa le regole sullo sforamento dagli obiettivi di deficit. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Paolo Preti, direttore del Master delle piccole imprese dello Sda Bocconi.



Come interpreta questi dati?

Come sempre, a giornate di pioggia ne succedono altre di sole. Sia che ci fermiamo ai dati negativi, facendoci prendere dal pessimismo, sia che di fronte a dati positivi – e ce ne sono, specie sul fronte dell’export – indulgiamo all’ottimismo, sbagliamo. Quel che è certo, è che la crisi non è ancora finita; e che occorre puntare, sui nostri fattori più solidi per uscirne in maniera definitiva.



Sull’export, quindi?

Indubbiamente. Che le esportazioni, almeno da luglio 2012, quando hanno raggiunto il livello più alto fin da prima della crisi, sostengano il Paese, coprendo i buchi del mercato interno, è ormai assodato.

L’export potrebbe diventare la voce principale della nostra economia?

I cosiddetti paesi emergenti hanno moltiplicato il proprio tasso di crescita quasi esclusivamente esportando (anche se, spesso, come in Cina, il tenore di cittadini è rimasto al livello di Terzo mondo): lo stesso potrebbe accadere anche in Italia. Grazie, soprattutto, alla globalizzazione.

Ci spieghi meglio in che modo.



Registriamo due tendenze: oggi possiamo sbarcare in mercati che, fino a pochi anni fa, non era pensabile che comprassero merce italiana. Inoltre, il gap tra ricchezza e povertà di molti paesi si sta ampliando notevolmente. Un fenomeno di “americanizzazione” che fa sì che i ricchi siano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Di per sé, ovviamente, si tratta di una dinamica infelice. Tuttavia, ciò significa che in giro per il mondo c’è e ci sarà sempre più gente che ha voglia di spendere i soldi guadagnati con la globalizzazione in prodotti di qualità ed eccellenza. E, in questo, vantiamo eccellenze riconosciute ovunque. E’ plausibile e auspicabile che, per queste ragioni, l’export continuerà a crescere.

 

In ogni caso, pure i consumi interni dovranno ben riprendersi. In caso contrario, vorrà dire che non saremo ancora usciti dalla crisi.

 

Vede, il calo dei consumi interni, a dire il vero, è più un problema per le imprese che per i cittadini. Indubbiamente, gli italiani comprano meno di prima; ma, mentre in Grecia iniziano a esserci bambini denutriti, o persone obbligate a scaldarsi bruciando delle piante perché non hanno i soldi per pagare il riscaldamento, da noi il fenomeno è notevolmente meno preoccupante. Per anni il nostro tenore di vita è stato decisamente superiore alle nostre possibilità. Ora, semplicemente, siamo stati costretti a dimensionarlo. Ma restiamo distanti – ovviamente, in media – dai livelli di sussistenza minima.

 

Uno dei freni principali alle esportazioni è l’euro troppo forte. In che modo la politica monetaria può venire incontro alle esigenze del commercio estero?

 

Ci sono due strade: un Paese può uscire dall’euro, ma gli svantaggi supererebbero di gran lunga i vantaggi; oppure, attraverso la Bce, iniziamo a dotarci, finalmente, di una politica monetaria europea comune, cosa di cui qualunque grande aggregato economico dispone. Su questo fronte, finora, siamo molto indietro. 

 

Come mai?

 

A causa degli ostacoli posti dalla Germania. Che, pur dandole atto di aver dato vita a riforme strutturali imponenti, da questo stato di cose è il Paese che ci guadagna di più. Per i tedeschi, infatti, l’Europa rappresenta ancora il mercato principale. Dopo anni di esportazioni, la sua moneta, come normalmente avviene, si sarebbe dovuta rivalutare, mentre quella dei paesi che importavano dalla Germania si sarebbe dovuta svalutare. Questo processo non è avvenuto grazie alla presenza dell’euro a tasso fisso.

 

Quanto pesa sulla capacità di esportare delle nostre imprese (e sulla loro sopravvivenza) l’impossibilità di riuscire a esigere il pagamento di 79 miliardi di euro dovuti loro dalle pubbliche amministrazioni?

Indubbiamente moltissimo. Nell’ambito del ragionamento sull’export, rappresenta uno dei capitoli in assoluto più importanti.

 

In tal senso, come valuta le proposte di Pdl e Pd?

 

Di per sé, si tratta di misure necessarie e positive. Ma la Germania cosa dirà? Dipenderà, quindi, dalla capacità che il prossimo governo avrà di trattare. E qui si porrà un annoso problema: per andare d’accordo con l’Europa dovrà accettarne supinamente i diktat o sarà possibile, in certi casi, fare la voce grossa per difendere gli interessi del nostro Paese? Ovvero, meglio un Paese con i conti in ordine ma defunto e con un’economia dissestata, o con i conti meno in ordine ma con un tessuto manifatturiero sano? In tal senso dobbiamo prendere atto di un forte pregiudizio che pesa sull’Italia.

 

Quale?

 

Ci considerano inaffidabili. Nonostante abbiamo sempre onorato e continuiamo a onorare gli impegni assunti; altri paesi, con una nomea più rispettabile, possono invece permettersi tranquillamente di trasgredire le regole che ci rinfacciano di non rispettare. Basti pensare che, quando il gioco si è fatto duro, Francia e Germania non ci hanno pensato due volte a sforare dagli obiettivi di Maastricht.

 

In ogni caso, dovrebbe essere preferibile liquidare i crediti alle imprese, salvandole, piuttosto che lasciarle morire per non aumentare il debito pubblico

 

Non per la Germania. Se le imprese falliscono sono più facilmente acquistabili, mentre quelle che sopravvivono sono costrette ad abbassare i prezzi per essere competitive. In tal senso, non escludo che il ritorno di Berlusconi, al di là della sua scarsa credibilità, dà fastidio perché da Monti non ci si aspettano manovre di questo tipo.

 

(Paolo Nessi)

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