Non è giusto – spiega sulle colonne del Financial Times l’editorialista Wolfgang Munchau, feroce critico di Angela Merkel (e di Mario Monti) – accusare la Germania di mire imperiali sull’Eurozona. “Per Berlino – scrive – l’ideale sarebbe un’Europa che ragiona alla tedesca, non una Germania che ragiona e decide per conto dell’Europa”. Purtroppo, stante la debolezza del Vecchio Continente, ormai è sempre più concreta la “German Europe” piuttosto che la “European Germany”, per usare il gioco di parole. Il quadro, a prescindere dalla drammatica situazione italiana, è davvero desolante: la Spagna di Mariano Rajoy in preda alla protesta sociale al pari del Portogallo. La Gran Bretagna, fuori dall’area euro, sempre più lontana dal condividere le scelte di Bruxelles. La Francia, da sempre l’alleato di Berlino capace di far da contrappeso allo strapotere germanico, condannata a un imbarazzante silenzio.
È ormai evidente che l’appeal del presidente Hollande nei confronti di Angela Merkel è vicino allo zero. Così come le velleità di proporre e perseguire un modello economico alternativo a quello di Berlino. Insomma, la leadership incontrastata tedesca, sia politica che culturale, è più il frutto dei limiti altrui che di una volontà egemonica teutonica. Una sorta di imperialismo subito piuttosto che cercato: il risultato? La mancanza di una leadership per il Vecchio Continente che rischia di tradursi in un boomerang per la stessa Germania. La tesi, opinabile come tutte le tesi, ha il merito di contribuire a spiegare alcuni limiti evidenti della politica europea.
La leadership, infatti, richiede la capacità di avere un progetto, meglio una visione sul futuro. Al contrario, la German Europe lascia che siano le emergenze a bussare alla porta del castello di Bruxelles dove ci si limita a trovare le soluzioni del giorno dopo, senza preoccuparsi delle conseguenze successive. Esemplare, in questa chiave, la tragedia di Cipro. Il tracollo dell’economia cipriota era scontato dopo la decisione, presa nell’autunno del 2011, di imporre un brusco taglio al valore delle obbligazioni detenute dai privati nel debito pubblico greco. Quella decisione ha prodotto, in una sola giornata, un tracollo di 4 miliardi nelle casse delle banche dell’isola. Da allora il tracollo dell’isola è stato solo questione di tempo. Ma allora, dopo il solito estenuante negoziato notturno per evitare l’uscita di Atene dall’euro, il caso di Cipro è stato trascurato. Fino alla prossima emergenza, altrettanto scontata e prevedibile: Cipro, mutilata della sua unica fonte di reddito, cioè i servizi finanziari (motore di crescita anche per il turismo) non potrà sfuggire a una drammatica povertà.
Il “modello Cipro”, in questa chiave, non è diverso dalle soluzioni adottate in passato o quelle che, prima o poi, andranno prese per Italia o Spagna. Inutile prendersela con il ruvido ministro delle Finanze olandese. Jeroem Djissembloem, che minaccia di estendere il modello Nicosia anche all’Italia o alla Spagna: la sua linea è assai più coerente con la filosofia di questa Europa piuttosto che le speranze su cui si è fondata la politica di Mario Monti. Il premier italiano ha puntato tutte le carte sul comportamento virtuoso del Paese che fa con diligenza i compiti a casa nella speranza di attivare, con il suo comportamento, atteggiamenti solidali dei partners. A un certo punto era sembrata una strategia di successo, capace di sostenere l’azione di Mario Draghi alla Bce. Poi, l’appello italiano (e spagnolo) è caduto nel vuoto.
Certo, gran parte della responsabilità ricade sul drammatico vuoto politico che si è determinato nella politica italiana. Ma avrebbe fatto un gran comodo a Monti presentarsi all’appuntamento elettorale con alcuni risultati concreti: un’apertura sul fronte dei debiti fatti per pagare gli arretrati per le imprese; un aumento della dotazione dei fondi della Bei o della Bers, in vista di una possibile trasformazione di questi strumenti nel braccio di una politica di sviluppo per rilanciare l’Europa. E così via. Al contrario, frau Merkel ha evitato qualsiasi mossa che anche alla lontana potesse suonare come un appoggio al governo che meglio ha interpretato l’aspirazione alla “European Germany”, cioè l’adozione di criteri che potessero piacere all’establishment e alla cultura d’oltre Reno.
Rispetto dell’autonomia politica di un partner? Oppure rifiuto a svolgere un’azione consapevole di leadership? Più facile la seconda ipotesi. La convenienza economica ha ben poco a che vedere con questo atteggiamento. La Germania, nei fatti, ha già allentato la guardia. La Francia può permettersi di sforare il tetto del 3% debito/Pil senza per questo incorrere in sanzioni. Nei confronti di Madrid si stanno chiudendo non uno, ma due occhi. Ormai il capitolo dell’austerità volge al termine. Nei fatti, ma non a parole. L’assenza di leadership consiglia la politica del “si fa ma non si dice”, per non spaventare gli elettori tedeschi.
La ritrosia di frau Merkel a dar corso a una strategia che offra una prospettiva a lungo termine all’Europa è infatti largamente condivisa dall’opinione pubblica tedesca: la leadership in Europa non ha portato bene in passato alla grande Germania, meglio badare ai fatti propri. Fingendo di non capire che i “fatti propri” passano anche per Milano o Madrid. O forse no, pensano a Berlino, consapevoli che tra due anni l’import/export con la Cina supererà quello con la Francia, da sempre il primo partner commerciale tedesco.
Ecco il retroterra culturale del modello Cipro: è la miglior soluzione possibile, anche in termini di equità, se si parte dal postulato che non esiste mutualità o solidarietà europea. A Cipro la crisi bancaria è pagata da azionisti, obbligazionisti e depositanti. In ultima istanza dal governo che dovrà prendersi carico dei fallimenti e della disoccupazione. Quel che accadrà dopo in un’isola orfana della sua principale fonte di reddito, al nord Europa non interessa. Lo stesso, naturalmente, varrà un domani per l’Italia. Per risanare le casse dello Stato e, di riflesso, quelle delle banche stremate dalla crisi della clientela e da eventuali, probabili attacchi, ai Btp.
Insomma, rassegniamoci a fare da soli. E prepariamoci ad agire di conseguenza. Non ha senso alcun programma di governo che miri all’alleanza con François Hollande per imporre a Berlino gli eurobond o altre misure espansive. Il risultato non sarebbe migliore di quello ottenuto da Parigi, ove Hollande è ai minimi storici di popolarità per un presidente eletto da soli 300 giorni. Non ha nemmeno senso perseverare nella rincorsa alle emergenze all’insegna dell’austerità, nella speranza che prima o poi arrivi un qualche sostegno da oltre Reno.
Una politica che ha ormai assunto risvolti paradossali, come dimostra la vicenda dei pagamenti degli arretrati alle imprese. Dietro ai ritardi c’è, oltre ala volontà di non uscire dai parametri previsti dalla Commissione, un braccio di ferro domestico: la direzione generale del Tesoro e il ministro dell’Economia Vittorio Grilli frenano perché temono (probabilmente non a torto) che una buona parte di questi fondi invece di finire alle imprese potrebbero finire, con le leggi attuali, parcheggiati nelle casse di regioni affamate di quattrini e vogliose di poter spendere a favore delle proprie clientele.
L’alternativa? L’Europa ci chiede di salvarci con le nostre mani. Proviamoci. Invece di attendere le richieste della trojka, anticipiamole. È necessario rimettere in circolo i capitali, con una grande operazione di privatizzazione dei beni pubblici a redditività bassa o nulla. La strada è quella di un grande prestito italiano, stimolato da condizioni fiscali favorevoli. Occorre dar fiato, fin da subito, ai fondi pensione e operare una politica, entro certi limiti, espansiva.
Rischiamo di incorrere nelle penalità Ue? Forse, ma prima o poi, con l’austerità che strozza le aziende, ci finiremo comunque. Con qualche milione di disoccupati e qualche milione di aziende in meno. Meglio muoverci prima, senza penalizzare la poca ricchezza che ci resta ma mobilitandola per il futuro. Purché ne siamo capaci. Altrimenti non ci restano che le emissioni di Btp Italia, ovvero l’oro alla patria da sacrificare in una guerra già persa in partenza. Una guerra che la Germania, chiusa nel suo castello, probabilmente non vuole vincere.