Ove la politica economica del Governo Monti dovesse essere valutata sulla base dei risultati quantizzati per il 2012 (in pratica l’anno in cui ha avuto le redini per indirizzare l’economia del Paese), l’esito non potrebbe essere che una bocciatura. Giovedì scorso, il Centro Studi Confindustria ha sottolineato che l’economia reale è caduta a picco con 13 indicatori su 16 in flessione nell’arco di 12 mesi. Venerdì l’Istat ha certificato che il numero dei disoccupati sfiora i tre milioni e che il tasso di coloro che tra i 18-24 anni cerca lavoro senza trovarlo viaggia verso il 40% (una situazione esplosiva come in Spagna e in Grecia). Sempre venerdì, il ministero dell’Economia e delle Finanze ha documentato, nel proprio consuntivo, che nel 2012 appena trascorso lo stock del debito pubblico rispetto al Pil è aumentato dal 120% al 127% (a cui aggiungere un 6% di debiti delle pubbliche amministrazione nei confronti di imprese, di individui e di famiglie).
Sarebbe errato attribuire questi esiti al Governo ora in carica per “gli affari correnti”, dato che i risultati di una politica economica richiedono tempo per manifestarsi. A una lettura veloce, però, pare che non si sia né “messa in sicurezza” la finanza pubblica italiana, né avviata la strada della ripresa. A un’analisi controfattuale, si potrebbe dire che ove non ci fosse stata una discontinuità nell’inverno 2011, il quadro sarebbe ancora peggiore – tesi a cui, naturalmente, si oppone il Pdl, con una raffica di dati e analisi che da un anno presenta quasi quotidianamente Renato Brunetta, economista prima di entrare in politica attiva.
È da questo quadro (non certo da stare allegri), che occorre partire per individuare le vie della ripresa come intendiamo fare nella settimane che ci separano dalla formazione del Governo e dalla definizione del suo programma. Le esigenze sono numerose: dal rafforzamento del capitale umano e della rete di sicurezza sociale all’eliminazione degli sprechi nella finanza pubblica e al ribasso del costo della politica, dalle infrastrutture fisiche alle reti.
Tuttavia, è evidente che in un Paese manifatturiero come l’Italia (ancora, nonostante la crisi, secondo produttore industriale dell’Unione europea), l’attenzione deve essere rivolta prioritariamente all’industria manifatturiera. Non dobbiamo chiudere occhi e orecchie di fronte al fatto che la locuzione stessa “politica industriale” non esiste nel dizionario comunitario e che, secondo alcune analisi, l’Italia delle Piccole e medie imprese starebbe resistendo bene alla crisi. Il fatto è che nell’Ue non si fa “politica industriale” poiché la concorrenza (del cui portafoglio è stato per tanti anni titolare Mario Monti) sarebbe lo strumento per la crescita di un manifatturiero produttivo e competitivo; ma non bisogna dimenticare che in Francia e Germania, i due maggiori Paesi Ue, viene esplicitamente fatta politica industriale indirizzando, tramite la mano pubblica, imprese verso l’aumento di dimensioni, l’innovazione e l’internazionalizzazione. La “buona salute” dei “distretti di piccole e medie imprese”, quindi, appartiene più alla poesia che alla realtà, come documentato non solo dai dati Confindustria, ma anche da quelli, ancora più incisivi, del centro studi Met.
L’ultimo rapporto Met (“Crisi Industriale e Crisi Fiscale”, a cura di Raffaele Brancati, Donzelli editore) presenta infatti elaborazioni, analisi e quantificazioni su dati accuratamente raccolti, per le politiche attuate e per le variazioni della normativa fiscale. Una larga sezione è dedicata alla domanda di policy, ovvero all’evoluzione della struttura produttiva industriale negli anni della crisi. Il sistema produttivo è analizzato attraverso molte elaborazioni sui risultati di un’indagine campionaria (25.000 casi in ciascun anno – molto più vasto del campione di 4.000 casi utilizzato dalla Banca d’Italia) realizzata nel 2008, 2009 e 2011. Vengono approfonditi i temi dell’evoluzione della situazione e delle strategie delle imprese tra il 2008 e la fine del 2011, con l’evidenza delle criticità, della domanda di policy e, soprattutto, delle reazioni da parte degli operatori più dinamici. Ulteriori approfondimenti sono dedicati agli effetti dei vincoli finanziari e alla presenza di reti e filiere.
Il senso del lavoro è quello di offrire riflessioni analitiche sui due aspetti, molto complessi da affrontare, cercando di produrre informazioni analitiche ed elementi conoscitivi addizionali rispetto al panorama disponibile. Il documento presenta un esame dettagliato della struttura produttiva industriale e dei servizi alla produzione (settori fondamentali per la competitività internazionale) e sulla specificazione e quantificazione dei flussi della politica italiana nei confronti di questi stessi settori.
La convinzione profonda che guida il lavoro è la pochezza del valore conoscitivo dei dati medi in un Paese caratterizzato dalla convivenza stretta tra eccellenze straordinarie e diffuse inefficienze, da un lato, e dalla necessità di ragionare su numeri adeguati e corretti, dall’altro. La stessa opportunità di approfondire i caratteri dell’eterogeneità che è presente nel nostro sistema sembra essere una considerazione diffusa che trova i suoi limiti nella disponibilità di dati qualitativamente accettabili e aggiornati.
Il libro presenta due sezioni di studio: una dedicata all’offerta di aiuti di Stato e alla politica tributaria per le imprese, i due fenomeni principali attraverso cui si è realizzata, nella recente esperienza, la politica industriale nazionale esplicita, e una dedicata alla “domanda” di policy da parte delle imprese rappresentata attraverso l’identificazione delle criticità e delle caratteristiche di base degli operatori. L’analisi della domanda, a sua volta, si articola in quattro sezioni: una descrizione originale basata sulla vasta indagine Met condotta con cadenza biennale sulla struttura produttiva italiana (industria e servizi alla produzione), alcuni approfondimenti sulla distribuzione dei fenomeni e sulle tipologie caratterizzanti delle imprese, due studi di caso sugli effetti dei vincoli finanziari sull’attività innovativa e sul ruolo di reti e filiere nel contesto internazionale e, infine, un capitolo metodologico in cui si descrive con dovizia di particolari logica, prassi e metodo dell’indagine.
Quali le conclusioni? Dopo anni in cui si è ciurlato nel manico in controversie tra Stato e Regioni in merito al “pasticciaccio brutto” su chi ha titolo a quale tassello di politica industriale in base al Titolo V della Costituzione quale rinnovato caoticamente nel 2001, occorre incoraggiare le imprese ad adottare il binomio dell’innovazione e della globalizzazione, l’unico che promette successo.