In questi giorni mi è capitato sempre più spesso di riflettere su ciò che accade quotidianamente nella vita dell’Europa, dell’Italia e delle imprese.

Stiamo assistendo, in un contesto economico e politico stagnante, a un costante e continuo aumento delle sovrastrutture.

Mi riferisco a tutte quelle regole che, sia in ambito di mercato europeo che sul posto di lavoro, stanno finendo con il paralizzare l’attività, laddove sarebbe necessario in ogni maniera allentare la pressione coercitiva e stimolare l’imprenditoria e la fantasia.



Se torniamo indietro con la memoria, non possiamo aver dimenticato come i primi atti costitutivi dell’Unione Europea siano rimasti famosi non tanto per l’impulso dato all’integrazione politica e culturale dei paesi aderenti (lacuna che rimane invariata ai giorni nostri), quanto piuttosto per il proliferare delle normative volte a regolamentare, una volta per tutte, temi “scottanti” come il raggio di curvatura delle banane, la dimensione degli ovetti Kinder, la forma dei cetrioli.



Sarà pur vero, come hanno sostenuto esperti e giuristi, che fosse necessario affrontare queste tematiche per evitare situazioni di concorrenza sleale, ma al fondo di tutto questo mi sembra che si sia perso il senso profondo e nobile della costituzione europea: unire diversi paesi con culture, economie, lingue e potenzialità differenti per metterli nelle condizioni di affrontare la sfida del futuro al meglio.

Per competere con USA, Cina e paesi emergenti da una posizione di maggior peso rispetto a quella dei singoli stati.

Nel nostro Paese, poi, la crescita delle legislazioni (nazionali, regionali, comunali, provinciali) ha reso il tema della sovra-regolamentazione ancora più pressante, paralizzando di fatto il mondo imprenditoriale e le nuove iniziative. Ma anche all’interno delle stesse imprese la situazione non è migliore.



Basta parlare con manager di multinazionali e grandi aziende per farsi raccontare quanto tempo viene investito nel corso dell’anno in internal audit dove vengono analizzati, scandagliati e controllati i campi più disparati dell’attività aziendale alla ricerca delle famigerate non “compliance”, ovvero i comportamenti non perfettamente in linea con le regole.

Queste attività possono arrivare addirittura a rallentare o paralizzare le attività di un reparto, con conseguenze sulla produttività ed in ultima analisi sul bilancio.

Non voglio sostenere che tutto questo sia inutile o dannoso a prescindere. Credo che sia sacrosanto adottare delle regole e farle rispettare.

Vorrei solo stimolare una riflessione sul tema: ci stiamo dando troppe regole? Anni fa, durante il corso di laurea, mi sono confrontato con alcuni scritti di Friedrick Von Hayek. Il pensiero di quest’ultimo, con i suoi forti accenni libertari (ancora più estremi nel Robert Nozick di Anarchia, Stato e Utopia) mi sono rimasti come monito. 

“Ciò che distingue radicalmente le condizioni di un paese libero – affermava Von Hayek in Verso la schiavitù – da quelle di un paese sottoposto a un governo arbitrario è il fatto che nel primo si osserva il grande principio denominato l’imperio della legge.

Spogliato da ogni tecnicismo, esso significa che il governo, in tutte le sue azioni, è vincolato da regole fisse e annunziate in anticipo, regole che danno la possibilità di prevedere con ragionevole sicurezza in qual modo l’autorità userà i suoi poteri coercitivi in determinate circostanze, e di indirizzare i propri affari individuali sulla base di tale cognizione”.

Regole fisse e annunciate in anticipo! Non situazioni mutevoli, continuamente implementate in corso d’opera per aggiungere paletti. Siamo in uno scenario mondiale dove la Cina, ma anche Brasile, Russia, India, Corea e Turchia stanno crescendo a ritmo straordinario, facendo la fortuna della aziende presenti su quei mercati, ma di fatto annichilendo gli sforzi della “vecchia Europa”.

Questi Stati, diversi per cultura e tradizioni, stanno anche beneficiando di legislazioni più morbide che agiscono da catalizzatore positivo per l’impresa. Ma anche negli USA, colpiti dalla crisi in modo massiccio in questi anni, il quadro appare più leggero. Per aprire un’attività, per esempio, bastano pochi giorni e pochi documenti.

In Europa, se vogliamo ridare ossigeno all’economia, dobbiamo probabilmente ripensare le regole in maniera più efficiente. Riducendole, rendendole comprensibili, significative e chiare. Più vicine alle persone e meno ai burocrati.

Oltre a questo, in Italia, dove (per tornare all’esempio di prima) avviare una nuova attività rappresenta un’impresa titanica quando non proibitiva, bisogna davvero aprire ai giovani. Qualche mese fa, per lavoro, mi è capitato di incontrare una persona speciale.

Si chiama Selene Biffi. Trentenne brianzola con due Master ad Harvard e Dublino.

Ha creato un progetto che ha un titolo emozionante “Plain Ink, quando il cambiamento si legge come un libro”. Attraverso i fumetti e le storie agisce su due piani: da un lato, facilita il dialogo interculturale in Italia tra i bambini italiani e quelli di altri paesi, dall’altro crea dei percorsi educativi, per esempio, per i bambini afghani, insegnando loro l’importanza della gestione di un pozzo d’acqua, della corretta conservazione del cibo e dell’igiene personale con un linguaggio semplice, ma coinvolgente ed efficace.

Selene ha avviato la sua start up “Youth Action for change” a ventidue anni con soli 150 Euro, messi di tasca sua.

Mi ha raccontato di aver bussato a tutte le porte possibili e di aver seguito la trafila tradizionale per partire con il suo progetto. Le risposte? Sempre le stesse: “Sei troppo giovane” oppure “Se questa idea non l’ha ancora avuta nessuno, non ce la sentiamo di rischiare per primi”.

Alla fine, con grande tenacia e senza procedure o business case, è partita con le sue forze. Il tempo le ha dato ragione. Con riconoscimenti internazionali dell’ONU (per la quale ha lavorato) e di grandi multinazionali. Il senso di questa storia? Seguendo le regole e andando per le vie normali, Plain Ink non sarebbe mai nato e oggi non potremmo essere orgogliosi di questa donna straordinaria che in questi giorni a Kabul sta cercando e formando maestri che aiutino i ragazzi afghani a costruirsi, da soli, un futuro migliore.

Lo stesso che auguriamo all’Italia e all’Europa.