“Siamo tutti contenti di uno spread intorno ai 300 punti, ma è ancora alto”. Lo ha dichiarato Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia, il quale ha aggiunto che “tenendo conto di quello che ha fatto il Giappone, dell’Omt (le operazioni monetarie della Banca centrale europea, ndr) e considerato quello che ha fatto l’Italia, lo spread dovrebbe essere a 100 e invece paghiamo ancora uno spread troppo elevato”. Per il numero due di Palazzo Koch, quindi, il rilancio del Paese “passa per uno sforzo coordinato di governo, banche e imprese”. Ilsussidiario.net ha intervistato il giornalista economico Ugo Bertone.
Ritiene che sia possibile ridurre ulteriormente lo spread, fino ad arrivare a quota 100?
Come ha detto Saccomanni, ci sono numerosi fattori del tutto positivi e indipendenti dalla volontà italiana, che fino a questo momento non hanno avuto effetto perché c’erano delle pesanti zeppe politiche. Ieri il Financial Times online ha pubblicato un’intervista a Bill Gross, il più importante gestore di debito pubblico al mondo. Gross dice in sostanza: “Spendete i soldi”. A un investitore dei mercati obbligazionari, così come a uno dei mercati azionari, non importa nulla dell’austerità fine a se stessa, perché è molto più importante la crescita. Nei tempi lunghi bisogna ritrovare gli equilibri di bilancio, ma questi si ottengono solo se l’economia cresce.
In che modo concretamente è possibile intervenire per ridurre lo spread?
Per abbassare lo spread, in un clima internazionale in cui si sta facendo ogni cosa per evitare il crac di paesi come l’Italia o la Spagna, è indispensabile un accordo che permetta di fare arrivare finalmente denaro a chi produce. Ciò avviene riducendo la pressione fiscale e immettendo sul mercato denaro per i consumi. Per questo è strettamente necessario un accordo che riguardi aziende e forza lavoro, perché gli investimenti non possono certamente ripartire finché il mercato del lavoro incontra così tante difficoltà.
A che cosa si riferisce in particolare?
Un imprenditore non può assumere a termine, non può licenziare, ma d’altro canto esiste una precarietà assoluta che mina qualunque fiducia dei consumatori. Occorre un intervento sul fisco, che in tempi lunghi può essere giustificato se riesce a ridurre l’entità delle spese, mentre nei tempi brevi deve essere uno sforzo condizionato come quello che stanno attuando i giapponesi. In questa situazione si può puntare alla riduzione dello spread immettendo denaro nell’economia, purché vada a finanziare lo sviluppo.
Saccomanni non ha parlato di impegno per la crescita. Per quale motivo ritiene che la riduzione dello spread passi da uno sforzo che va in questa direzione?
Saccomanni ha sottolineato che con tutti gli sforzi compiuti, sia dall’Italia sia dalla Banca centrale europea, sia dalla comunità internazionale, e in particolare dal Giappone, lo spread dovrebbe essere già ridotto a quota 100. Se ciò non è avvenuto, è perché ci sono dei freni che impediscono di trasmettere questi effetti virtuosi alla dinamica del Paese. Esiste cioè una zeppa politica molto forte, che va a ostruire tutti i canali di comunicazione. In una situazione come quella attuale, nessuna industria investe, nessun consumatore cambia l’automobile o anche solo il sofà di casa, e nessuna banca presta denaro ad aziende che tra sei mesi potrebbero trovarsi in situazioni molto più difficili di quanto non appaia oggi.
Lo spread è ancora un indicatore utile della crisi e del rischio-Paese?
Lo spread da questo punto di vista ha perso sicuramente significato, perché non è più determinato dai fondamentali dei singoli paes, e risulta fortemente condizionato dall’afflusso di liquidità. Ciò rende la misura dello spread molto diversa rispetto a qualche anno fa, ma non toglie che il differenziale rimanga un fattore importante.
Per quale motivo oggi lo spread conta meno di un tempo?
In questo momento c’è una tale spinta affinché i gestori investano nei paesi che rendono anche solo un po’ di più, che il differenziale nel rendimento dei titoli di Stato diventa meno significativo. Il differenziale resta tuttavia pur sempre estremamente importante. La riduzione dello spread un domani potrebbe infatti significare che una parte degli investimenti che si sono indirizzati verso i paesi a rischio zero come la Germania torneranno a spalmarsi anche nel resto dell’Eurozona. In questo modo si rimuoverebbe una delle cause del rischio collasso dell’euro. Si tornerebbe così verso un percorso più virtuoso, e a contare non è quindi tanto il valore dello spread in sé, quanto il valore dei movimenti dei flussi di capitale che viene indicato dallo spread.
(Pietro Vernizzi)