L’Agenzia delle entrate ha comunicato il via libera ai correttivi agli studi di settore. Le modifiche, in particolare, saranno divise in quattro categorie: interventi relativi all’analisi di normalità economica; correttivi specifici per la crisi; correttivi congiunturali di settore; correttivi individuali. Il Fisco ha compreso, in sostanza, che la crisi e una tassazione giunta alle stelle stanno vessando i cittadini al punto tale da aver reso i parametri di un tempo del tutto inadeguati. E finalmente, verrebbe da dire. Peccato che, secondo Paolo Costanzo, commercialista titolare dell’omonimo studio di consulenza aziendale, l’operazione potrebbe rappresentare un misero palliativo.



Come funzionano, anzitutto, gli studi di settore? Si tratta di strumenti volti ad accertare l’evasione fiscale sulla base di una serie di parametri attraverso i quali vengono calcolati i redditi presunti di imprese e professionisti suddivisi per categoria. Spesso, la cifra individuata eccede il reddito reale. Questo, perché gli indici utilizzati derivano, a loro volta, dall’analisi della struttura dei costi del contribuente. Ma, in genere, i costi tendono ad aumentare, mentre i profitti a ridursi. E, per i prossimi anni, il trend è destinato ad acuirsi.



Una volta determinato l’importo, cosa accade? Laddove vi sia un scostamento tra reddito presunto e dichiarato, è previsto un contradditorio in cui il contribuente è tenuto a dichiarare le cause di tale differenza. Normalmente, difficilmente le loro giustificazioni sono accettate. Un comportamento dettato anche da banali esigenze di budget da parte dello Stato.

Cosa comporta, per il contribuente, avere torto? Il contribuente, laddove – come normalmente avviene – le sue ragioni non siano accettate, ha diritto ad aprire un contenzioso tributario. Difficilmente, tuttavia, si arriva a tanto. Aprire un contenzioso costa. In termini di tempo (occorre produrre la documentazione necessaria e distrarre risorse umane dalle attività produttive) e denaro. E, molto spesso, l’esito è a favore dello Stato, che dichiara la presenza di evasione fiscale con tutte le conseguenze che questo comporta.



Quindi?

Prima di arrivare al contenzioso, capita non di rado che il contribuente accetti semplicemente di pagare la differenza. Ovvero, le imposte previste dalle stime del suo studio di settore, benché queste eccedano quanto effettivamente dovrebbe pagare. Conviene, in sostanza, accordarsi con il Fisco. Una pratica, di per sé, inaccettabile. 

Perché? Viene così meno il dettato costituzionale secondo cui le tasse vanno pagate sulla base della propria capacità contributiva. Inoltre, tutto questo rappresenta l’incapacità del’amministrazione finanziaria di accertare i fenomeni evasivi.

Alla luce di ciò, come valuta il via libera ai correttivi? Si tratta di una misura doverosa. Anche perché i criteri degli studi di settore sono stati individuati sulla base di una situazione economica che era completamente diversa da quelle attuale, in cui  la maggior parte delle aziende hanno in bilancio un deficit significativo.

Rivedere gli studi di settore servirà a qualcosa? Ne dubito. Il rischio è che il risultato sia pari a zero. Anzitutto, perché ci sono molti altri strumenti, quali il redditometro, che promettono di produrre altrettanti danni. Ma il problema fondamentale consiste nel fatto che, alla base del sistema di accertamento fiscale italiano, vi è una premessa paradossale: chi, normalmente, dichiara tutto in maniera onesta, precisa e trasparente è più esposto agli errori del Fisco mentre i veri evasori, non figurando, riescono a farla franca.  

 

(Paolo Nessi)