Il contrasto non potrebbe essere più forte. L’Europa rallenta, l’Italia macina record negativi da Guinness dei primati. Il Giappone, al contrario, risale prima e più del previsto. Riassumiamo qualche numero: il Pil italiano è sceso dello 0,5% nei primi tre mesi dell’anno. Il che fa sette trimestri negativi di fila, come non era mai accaduto dal 1990, da quando cioè esistono le rilevazioni omogenee dell’Istat. Intanto, la Francia insegue: tre trimestri consecutivi in rosso, ovvero recessione. La Germania rallenta: solo +0,1%, indice Zew della fiducia delle imprese in lieve progresso dopo una lunga discesa. Al contrario, ieri da Tokyo arrivavano i segnali di rilancio del Pil giapponese che, fino al settembre scorso, viaggiava in recessione. Dopo l’incremento dello 0,3% nell’ultimo trimestre 2012, l’economia ha messo a segno un +0,9% da gennaio a marzo con un tasso di crescita annualizzato pari al 3,5%, contro una previsione del 2,7%.
Al rialzo della Borsa (+70% dallo scorso autunno) e al deprezzamento dello yen (-37% negli ultimi sette mesi) fa ora riscontro: a) il netto miglioramento della fiducia delle famiglie che si traduce in maggiori consumi; b) il rilancio dell’export, a partire dai colossi dell’auto (profitti Toyota +40%); c) il varo di investimenti pubblici a partire dal settore energia (nucleare compreso). È vera gloria? Oppure la strategia aggressiva di Tokyo finirà in un disastro? Ovvero: la lezione giapponese può tornare utile per l’Europa, Italia in testa? La politica del premier Shinzo Abe, detta “Abenomics”, si fonda su quattro pilastri:
1) Una politica monetaria aggressiva, guidata dal neo governatore della Boj Haruhiko Kuroda, insediato dal premier per dare il colpo d’avvio alla strategia. Kuroda si è posto l’obiettivo di far risalire l’inflazione al 2%, debellando la deflazione che affligge il Giappone in pratica dall’inizio degli anni Novanta. Questo comporta il raddoppio della base circolante entro il 2015. Ovvero gli yen in circolazione si moltiplicheranno per due.
Inevitabile la svalutazione della moneta, così come l’uscita dei grandi investitori dai titoli di Stato: perché accettare un rendimento a lungo termine dello 0,7% a fronte di un’inflazione del 2%? A comprare i Btp di Tokyo ci penserà la banca centrale, stampando nuova moneta. Il debito pubblico, già oltre il 220% del Pil, salirà ancora in un primo momento. Ma la ripresa, confida Abe, permetterà di aumentare le entrate del fisco. Non va poi trascurato che i giapponesi sono i primi risparmiatori del mondo: il debito pubblico, perciò, è posseduto quasi per intero da famiglie e imprese assai liquide.
2) Abe ha già lanciato un piano altrettanto aggressivo di spesa pubblica. Si tratta di attrezzare il Paese a reggere al possibile impatto di nuovi terremoti e tsunami. Ma anche di riavviare un programma di autosufficienza energetica con un forte contributo dell’energia nucleare.
3) Ancor più importanti, le riforme di struttura, necessarie per garantire la competitività del sistema. L’Abenomics intende incoraggiare la ripresa degli investimenti delle Corporations che in questi anni, anche a causa di quotazioni insostenibili dello yen, hanno obbligato le aziende a delocalizzare la produzione. Ma il piano è più complesso. Abe vuole spingere le imprese ad aumentare gli stipendi, cambiare l’organizzazione del lavoro, creare posti per i giovani e, novità assoluta, dare un forte impulso all’occupazione femminile.
4) Un aspetto rilevante della riforma riguarda l’apertura internazionale. Abe, in politica estera, è un conservatore nazionalista con tratti inquietanti (vedi l’esaltazione dei kamikaze così come la negazione dei crimini di guerra). Ma in politica economica ha “comprato” l’assenso di Washington garantendo l’apertura del Giappone alle merci e ai servizi Usa. Oltre a una nuova filosofia della governance. Non a caso in questi giorni un fondo activist Usa ha chiesto un profondo cambiamento delle strategie di Sony. In passato, i tentativi occidentali di penetrare nella fortezza Japan sono andati male. Adesso Tokyo promette di allinearsi agli standard della governance occidentale.
Insomma, una sfida a tutto tondo che ha avuto l’effetto di rivitalizzare la Borsa e di scatenare gli animal spirits della finanza internazionale. Gli hedge funds da mesi vendono yen e comprano titoli azionari. Da mesi i grandi gestori privati e istituzionali vanno a caccia di rendimenti sui mercati obbligazionari. Nelle ultime due settimane almeno 5 miliardi di dollari sono usciti dalle assicurazioni e dalle banche giapponesi per far vela verso Btp italiani e Bonos spagnoli. Intanto i profitti di Toyota fanno boom (+40%) e Volkswagen, di fronte all’offensiva del suo rivale più insidioso, lancia un profit warning.
Fin qui la cronaca. Ma la domanda vera è: l’Abenomics è un’alternativa all’austerità così come è stata teorizzata e praticata in questi anni? La risposta, ovviamente, va al di là dei confini di casa nostra. Non è praticabile una ricetta italiana che non abbia un respiro europeo. Come ha sottolineato di recente il professor Mario Noera, docente in Bocconi di Diritto ed economia dei mercati finanziari, “nel quadro attuale la vecchia politica economica, basata su ricette nazionali, non è più efficace. Non restano che due vie per riequilibrare i conti: 1) una politica espansiva che inevitabilmente va a colpire il cambio; 2) o, se si rinuncia alla leva del cambio, non resta che affidarsi all’arma della deflazione interna”. In questi anni l’Europa (e non solo) ha scelto la strada della deflazione interna, ovvero un calo del potere d’acquisto dei salari, destinando risorse crescenti al riequilibrio dei conti pubblici.
La terapia, dolorosa, non ha dato ahimè, i frutti sperati. E negli ultimi tempi si sono moltiplicate le critiche anche teoriche alla dottrina. Il capo economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, ha dimostrato che l’impatto dell’austerità sui Pil di un Paese in recessione è assai più alto di quanto stimato in precedenza. E l’Italia, stremata dalla cura Monti ne è un esempio eloquente. La regola Reinhard- Rogoff, ovvero la dimostrazione storica che un rapporto debito/Pil superiore al 90% impedisce in pratica lo sviluppo, è stata smentita da alcuni studiosi di Harvard che hanno rifatto i conti, scoprendo errori grossolani e omissioni di dati che hanno falsato i risultati. In realtà, non esiste una dimostrazione della regola per cui l’austerità sta alla base delle politiche di sviulppo “sane”.
In questo quadro l’eresia in arrivo da Tokyo ha avuto senz’altro un merito: “Finalmente – ha detto Noera – si torna a parlare di come riattivare il motore della crescita. Non è un compito di un solo Paese, bensì richiede una forte iniziativa internazionale: ci sono Paesi che devono rimettere in moto la domanda interna, altri devono mettersi in condizione di esportare. E il cambio deve riflettere i nuovi equilibri”.
L’Italia, ovviamente, fa parte dei paesi che, da un lato, devono mettersi in condizione di esportare, recuperando la competitività perduta. Ma, dopo il tracollo del 2012, deve pur rimettere parzialmente in moto la domanda interna. Occorrono interventi su lavoro al pari di una minor pressione fiscale. Si tratta di provvedimenti da concordare in sede Ue cui vanno aggiunti interventi interni alla giapponese sulla governance societaria (a partire dalle banche) e sull’occupazione femminile. Cose note, ma che oggi, una volta tramontato il pensiero unico, si possono fare con uno spirito nuovo. L’esperienza di Tokyo ci insegna che gli eretici non sempre finiscono sul rogo. Al contrario dell’austero fra Girolamo Savonarola.