Il premier Enrico Letta ha spiegato che sarà necessario aumentare l’Iva dal 21% al 22% per raccogliere nuovi introiti da 2 miliardi di euro, e subito la maggioranza di governo si è divisa. Da un lato il Pdl ha sottolineato che “non faceva parte del programma”. Dall’altra il sottosegretario del Pd, Baretta, ha ribattuto: “Se non alziamo l’Iva, non possiamo detassare le imprese”. Intanto l’Istat ha reso noto che nel mese di marzo il fatturato dell’industria è calato dello 0,9%. Ilsussidiario.net ha intervistato il giornalista economico Oscar Giannino.



Che cosa pensa dell’ipotesi di aumentare l’Iva fino al 22%?

Si tratta di un tema che ha sottotraccia da un paio d’anni un dibattito mai bene esplicitato. Siamo arrivati alla definizione di aumenti progressivi dell’aliquota standard dell’Iva con scaglioni temporali distribuiti in un biennio perché era necessario pensare a una copertura finanziaria sostitutiva di una mutazione del regime di deduzioni e detrazioni fiscali e della riforma fiscale promessa dal governo di centrodestra.



Quali sarebbero però le conseguenze di questo nuovo aggravio fiscale?

Dal momento che la riforma fiscale non c’è stata e l’introduzione del regime di deduzioni e detrazioni è passata solo in parte, il risultato è stato che questo modo di attuare clausole di salvaguardia con l’aumento di pressione fiscale scaglionato nel tempo in realtà si aggiunge alle decisioni assunte negli ultimi due anni per appesantire le imposte. Ce lo troviamo quindi come eredità di una maniera sbagliata di pensare alle clausole di salvaguardia attuate con un aumento di pressione fiscale. Negli Stati Uniti, per esempio, gli aumenti di tasse sono attuate con tagli di spesa automatici.



E’ più urgente fermare l’incremento dell’Iva o ridurre le tasse sul lavoro?

Da due anni a questa parte si sono confrontate queste due tesi. Da un lato c’è Confindustria,la quale preferisce che il riordino generale di sistema preveda un aumento della pressione fiscale indiretta, in cambio di uno sgravio della pressione fiscale diretta sul reddito da lavoro e su quello da impresa. Al contrario Rete Imprese Italia e Confcommercio ne hanno sempre fatto una battaglia molto energica.

Per quali motivi?

L’aumento dell’aliquota standard Iva è molto penalizzante per il tessuto di piccole e medie imprese, in quanto l’ultima catena di distribuzione del commercio subisce effetti aggiuntivi rispetto a quelli già molto forti della diminuzione del reddito delle famiglie. L’effetto traslato sui prezzi finali al consumo significa un’ulteriore stretta sulla possibilità di comprare per le fasce a basso reddito disponibile.

 

Ha ragione Confindustria o Confcommercio?

Il limite di questo confronto Confindustria/Confcommercio è che noi non siamo in presenza di una reimpostazione del sistema fiscale generale, grazie a cui si potrebbe scegliere di distribuire di più il carico fiscale sulle imposte indirette con significative diminuzioni delle imposte dirette, e magari ritocchi alla pressione fiscale su capitale e patrimoni. Al contrario, ci troviamo in un contesto nel cui ambito da anni la pressione fiscale è aumentata su tutti i tipi di prelievo.

 

E quindi?

Il motivo per cui non reputo positivo il disallineamento tra Confindustria e Confcommercio è che non ci troviamo di fronte a nessuna riforma globale, ma semplicemente alla scelta dello Stato di fare il possibile per non dovere toccare la spesa. Si aumenta l’Iva, si aggrava l’Imu sui capannoni, ma nessuno fornisce indicazioni su come tagliare la spesa per ridurre gli effetti recessivi.

 

(Pietro Vernizzi)