In un’intervista a ilsussidiario.net di pochi giorni fa, l’economista Mario Deaglio metteva in evidenza il fatto che il vero malato d’Europa non sia l’Italia, bensì la Francia. E che qualcosa nell’architettura storica dell’Ue, il cosiddetto asse renano, stia cambiando, proprio a causa del potenziale sistemico dell’economia francese unito alla ricetta tax’n’spend di Francois Holland, lo hanno confermato le parole del Commissario Ue all’Energia, il tedesco Guenther Oettinger. Per l’influente e rispettato membro della Cdu, infatti, “alla Francia verrà concesso più tempo dalla Commissione per tagliare il deficit, solo se introdurrà anche misure di riforma strutturale”. Insomma, una chiara indicazione di come l’abbandono delle politiche di austerity significherebbe per Parigi la fine dei trattamenti di favore. Un avvertimento in piena regola che segue quelli posti in essere prima dal governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, e poi dal capogruppo della Cdu, Michael Meister, a detta dei quali “Italia e Francia devono lavorare più duramente e più velocemente per risolvere i loro problemi strutturali”.
Parlando con il quotidiano Die Welt, Oettinger ha ricordato che “Parigi deve riformare il sistema pensionistico, liberalizzare il mercato del lavoro e ridurre il debito pubblico”. E tanto per rendere ancora più chiaro il suo messaggio Oettinger, alla luce dei due anni di proroga già concessi dalla Commissione Ue alla Francia per ridurre il rapporto deficit/Pil, ha dichiarato seccamente che “le nuove regole ci danno il diritto imporre misure punitive verso quelle nazioni che non perseguano la disciplina di budget, doppiamo solo fare ricorso a questi strumenti”. Insomma, Parigi è all’angolo, alla faccia della tanto declamata dottrina Hollande che dovrebbe cementare i vari dissensi europei contro la rigidità tout court di Berlino. Ma perché tanta durezza? La Germania deve mostrare il pugno di ferro in vista delle elezioni o la Francia è davvero, come denunciava una copertina dell’Economist dello scorso anno, una bomba a orologeria che sta ticchettando pericolosamente?
Partiamo da un dato: il sistema bancario francese è quattro volte l’economia del Paese, una ratio del 400% che è la peggiore di tutta Europa. Pensate che negli Usa questa ratio è del 100%. Inoltre, la struttura bancaria francese è relativamente debole e con un’esposizione al debito sovrano dei paesi periferici pari a circa il 15% del Pil nazionale, la gran parte verso l’Italia. Poi, al netto delle richieste tedesche, Hollande non solo vuole incrementare i programmi di sicurezza sociale, aumentare il debito attraverso la spesa pubblica e introdurre il salario di cittadinanza, ma anche abbassare l’età pensionabile. Il problema è che la Francia è ufficialmente entrata in recessione e se questa si aggraverà, così come il tasso di disoccupazione, aumenteranno anche le vere dinamo della nuova ondata di crisi, ovvero le sofferenze bancarie, destinate a mettere sotto enorme pressione un sistema bancario già esorbitante.
In Francia, lo Stato usa già oggi il 56% del Pil in spesa pubblica, il livello più alto dell’eurozona. Inoltre, forti di un nazionalismo che non è mai stato intaccato, consumatori ma anche mondo del business e governo applicano da sempre una politica protezionistica del “compra-francese”, dal vino alle automobili. Il risultato di questa logica quasi autarchica è un’ovvia perdita di competitività. Dalla fondazione dell’euro nel 1999, il costo per unità di lavoro della Germania è cresciuto solo del 10%, mentre al picco quello greco, irlandese e spagnolo toccarono rispettivamente +62%, +53% e +43%.
Attraverso riforme imposte dai salvataggi, sia sovrani che dei sistemi bancari, i costi sono scesi rispettivamente al 41%, 30% e 28%, mentre in Francia quel costo è continuato a salire. Dal 1999 a oggi è al +30%, lo stesso livello di Spagna e Irlanda. Di più, la quota di export mondiale della Francia oggi è la metà del 1999 e le prospettive non sono rosee, visto che il mercato delle esportazioni d’Oltralpe è dipendente per il 20% dai paesi cosiddetti periferici, contro il 13% della Germania. Il tasso di disoccupazione è all’11%, contro il 5,4% del Germania (al netto dei taroccamenti dei dati attraverso i mini-jobs): negli ultimi due anni il Regno Unito ha creato 400mila posti di lavoro, la Francia meno di 90mila. Ma lassù non hanno l’euro, né la Bce, hanno la Banca d’Inghilterra che presta soldi alle banche solo se queste li prestano a loro volta a imprese e famiglie.
Certo, negli anni il mercato del lavoro francese ha dovuto fare i conti prima con le legge sulle 35 ore, poi con “tasse sociali” o di solidarietà del 50% sui maxi-stipendi, una legislazione di protezione del lavoratore che rende pressoché impossibile licenziare, tassazione altissima: per chiunque non sia francese, fare affari e impresa in Francia appare un incubo, sulla carta. Anche la posizione fiscale non appare delle migliori. La ratio debito/Pil toccherà il 95% quest’anno, il deficit fiscale è al 4%, quasi come l’Italia, ma se la Francia dovesse pagare i tassi d’interesse di Roma il deficit sarebbe già ora ben al di sopra del 6%. Insomma, per la Francia dovrebbe valere lo stesso concetto che vale per il Mezzogiorno d’Italia: è unita a un’area prospera dell’Europa – cosiddetta Europa core – ma di fatto non ne fa parte, numeri alla mano.
Non mi permetto di contestare un economista di rango come Mario Deaglio, però mi pongo una domanda, semplice: se la Francia è così ridotta male, talmente male da essere lei il problema più grosso dell’Ue e non l’Italia, perché nel 2012 si è registrato un boom di investimenti italiani Oltralpe, nonostante la crisi? A metà aprile, infatti, a Milano si è tenuta una conferenza stampa dell’Agenzia Francese per gli Investimenti Internazionali dalla quale è emerso un quadro della Francia, come Paese business-friendly, un po’ differente da quello che si evince dalle nude cifre messe in fila. Malgrado un anno 2012 caratterizzato dalla crisi dei debiti sovrani in Europa, infatti, gli imprenditori italiani hanno confermato il loro interesse nei confronti dei mercati esteri. Nel 2012 infatti, su 693 progetti di investimento di provenienza estera registrati in Francia, 63 progetti provengono dall’Italia (+37% rispetto al 2011), il miglior risultato del nostro Paese negli ultimi 5 anni. Tali progetti consentiranno il mantenimento o la creazione di oltre 2100 posti di lavoro (+31% rispetto al 2011).
Nonostante le difficoltà dell’economia europea, l’Italia si classifica al terzo posto mondiale, dietro gli Stati Uniti e la Germania, per il numero di progetti sviluppati Oltralpe e al secondo posto europeo. Le tre prime regioni italiane a investire in Francia sono la Lombardia (con il 29% dei progetti), il Piemonte (14%) e l’Emilia-Romagna (14%), che rappresentano più della metà dei progetti italiani, poi seguono Toscana (11%), Lazio (10%) e Veneto (8%). Come negli anni precedenti, il 52% delle imprese italiane che hanno investito in Francia nel 2012 appartengono ai settori tradizionali, con un forte predominio della meccanica, della metallurgia, della filiera aeronautica e ferroviaria e infine di quella automotive. “Questi risultati, in un contesto economico particolarmente difficile, confermano la qualità e la solidità delle relazioni economiche tra i nostri due paesi. Dimostrano inoltre il dinamismo e la reattività degli imprenditori italiani. Accanto ai grandi gruppi italiani, la cui presenza storica si va rafforzando, emergono numerose piccole e medie imprese che trovano nel mercato francese uno spazio favorevole alla propria internazionalizzazione. Complessivamente, dal 2008, gli imprenditori italiani hanno avviato 274 progetti di investimento che hanno creato o mantenuto circa 13mila posti di lavoro”, ricordava al termine dell’incontro, Hervé Pottier, direttore per l’Italia dell’Agenzia Francese per gli Investimenti Internazionali.
E chi sarebbero questi soggetti che hanno scelto la Francia? ABS, appartenente al gruppo Danieli, opera nella produzione di acciai speciali per l’industria e ha costituito a Metz, in regione Lorena, il suo innovativo centro di ricerca. Afv Acciaierie Beltrame Spa, leader in Europa nel comparto siderurgico della produzione di laminati mercantili. Nel 2012, il gruppo ha deciso di chiudere alcuni dei siti industriali del gruppo del Nord dell’Europa, e concentrare le attività produttive nel solo sito francese ubicato nella Nord-Pas-de-Calais, ampliandolo. Alenia Aeronautica, società del gruppo Finmeccanica, progetta e realizza sistemi di volo complessi che vanno dai velivoli da difesa avanzati ai velivoli da trasporto militari e civili, dai velivoli per sistemi di missione agli aerei a pilotaggio remoto. Ferrero azienda alimentare dolciaria leader in Europa e nel mondo, si sviluppa in Francia nel 2012 attraverso l’ampliamento di uno stabilimento della sua filliale francese – Ferrero France – ubicato nella regione Haute Normandie. Finmeccanica Telespazio France, la controllata francese di Telespazio (Finmeccanica/Thales), è uno dei maggiori operatori europei nel campo dei servizi spaziali: nel 2012 è stato creato in regione Aquitaine, il primo centro operativo integrato in Europa per il monitoraggio ambientale EarthLab, oltre all’apertura di un nuovo centro Atr di addestramento piloti a Parigi. Flo Spa, azienda produttrice di bicchieri per distributori automatici, ha deciso di ampliare la sua unità produttiva francese ubicata nella regione Nord-Pas de Calais. E altri ancora.
Tutti pazzi? Tutti autolesionisti? O forse, oltre al debito pubblico, al peso della spesa sociale, all’esorbitante sistema bancario, della Francia bisogna anche sottolineare il fatto che la Pubblica amministrazione di quel Paese salda i debiti con i fornitori in 60 giorni, contro gli oltre 170 di quella italiana (quando paga)? O il fatto che nel nostro Paese la durata media dei processi civili ammonta a circa tre anni, ragione per la quale l’Italia è collocata al 157° posto su 183 nazioni nella graduatoria annuale della Banca Mondiale e rappresenta, al contempo, il fanalino di coda dei paesi dell’Ocse? Sulla stessa lunghezza d’onda, nel contesto europeo, sia la Commissione europea, sia il Consiglio hanno evidenziato la necessità che l’Italia adotti misure volte a ridurre la durata delle procedure di applicazione del diritto contrattuale, la cui eccessiva lunghezza rappresenta uno dei profili di debolezza del nostro contesto imprenditoriale.
Analogamente, la Banca d’Italia ha prodotto negli ultimi anni numerosi studi a riguardo, in quanto l’inefficienza della giustizia civile, quale “pilastro tra le istituzioni di un’economia di mercato mette seriamente in discussione diritti di proprietà, contratti, promozione della concorrenza”. Secondo il Rapporto 2010 della Cepei, la Commissione che monitora l’efficienza della giustizia di 47 paesi europei, nel nostro Paese vengono annualmente avviate 4.809 cause civili ogni 100.000 abitanti, a fronte delle 3.961 del Regno Unito, delle 2.672 della Francia e delle 2.345 della Germania. Per le stime della Cepei, sono 533 i giorni di attesa per la pronuncia di una sentenza di primo grado, mentre per giungere a conclusione si devono attendere in media quattro anni, il doppio rispetto a Francia, Gran Bretagna e Germania.
Non sarà poi che in Francia aprire un conto corrente per un’azienda straniera è più facile, che chi crea posti di lavoro gode di deduzioni fiscali, che esistono strutture che mettono i tappeti rossi agli imprenditori, come quella che ha presentato i proprio risultati a Milano lo scorso aprile? Per far ripartire un Paese, per dare benzina alla crescita è una soltanto la voce che conta: FDI, Foreign Direct Investment, investimenti stranieri diretti. L’Italia è ultima della classifica da quasi quarant’anni, salvo un triennio nella scorsa decade, al riguardo.
Non sarà il caso, quindi, di cominciare a guardare a questa crisi al di là degli spread e mettersi in testa che la riforma della giustizia civile, la sburocratizzazione, il serio lavoro di attrattiva verso investitori esteri (non quella buffonata dell’Ice) e il fatto che la Pubblica amministrazione paghi i propri debiti in tempi umani sono i veri grimaldelli per ripartire? Al netto delle ricette un po’ folli di Francois Hollande (tra il dire e il fare, però..), magari fossimo noi malati come la Francia…