“Non siamo la casta né il salotto buono, ma la casa del capitalismo reale”: con grande orgoglio ieri Giorgio Squinzi ha voluto trovare una definizione, un punto di riferimento comune per una Confindustria divisa come non mai. Alla vigilia dell’assemblea che segna il suo primo anno di presidenza, il patron della Mapei si è trovato su La Stampa un’intervista durissima di Pietro Barilla, che già aveva espresso pubblicamente le sue critiche contro un’organizzazione pesante, dispendiosa, lacerata da pesanti conflitti d’interesse, in evidente crisi d’identità. E proprio su La Stampa, il quotidiano di quella Fiat che ha lasciato la Confederazione (anche se non l’Unione industriali di Torino). Con Barilla c’è Andrea Riello che guida un fronda di imprenditori del nord-est. Ma c’è soprattutto lo stato d’animo della piccola e media industria che soffre di una recessione descritta dallo stesso Squinzi con toni apocalittici: “Siamo sull’orlo del baratro”.
Nella riunione a porte chiuse, mercoledì, si è consumato uno dei contrasti interni più urticanti, quello tra imprese private e pubbliche. Il capo dell’Enel, Fulvio Conti, ha risposto che non vede interessi davvero divergenti: l’energia è un prodotto, non c’è alcun conflitto tra chi produce la pasta e chi fornisce la farina. A parte che il conflitto c’è su prezzi, quantità e qualità, qui si mettono a confronto entità di natura diversa come un produttore che opera sul mercato concorrenziale e il gestore/produttore, controllato dallo Stato, di una risorsa di interesse strategico che costa il 30% in più rispetto alla media dei paesi europei. Il discorso vale anche per l’Eni, le Ferrovie, le Poste, le Autostrade (anche se private). Insomma, tutti i concessionari che forniscono servizi essenziali o infrastrutture.
Se la Confindustria è la casa del capitalismo reale, allora bisogna chiedersi che cos’è oggi il reale capitalismo italiano. Esiste ancora? O è il comitato d’affari di oligopolisti e banchieri? La risposta è che esiste, è fatto di imprenditori manifatturieri, quelli del Quarto capitalismo (come lo stesso Squinzi) più il reticolo di piccole imprese che ancora fanno dell’Italia un Paese industriale e dell’industria il motore dello sviluppo (parole di Squinzi). Allora, bisogna trarne le conseguenze. “Io credo alla rappresentanza degli interessi, ma quella che sta a contatto con le imprese”, commenta lo storico dell’industria Giuseppe Berta e continua: “Oggi la concertazione centralizzata non ha più senso, c’è da riattivare una dinamica positiva della produttività attraverso gli accordi di base”. Dunque, è il confederalismo ad aver fatto il suo tempo, quello della concertazione tripartita con governo e sindacati, del lungo elenco di priorità (tante richieste e tutte prioritarie), quello del collateralismo con i governi (spesso di colore diverso).
Non che non esistano accordi decentrati, a livello di impresa e territorio. Sono il pane quotidiano, ma stentano a diventare il nuovo modello politico e organizzativo, un modello che ha come conseguenza la riduzione dell’apparato confederale e la selezione degli iscritti. La Confindustria che si fa grande come una volta faceva l’Iri, assorbendo tutti e in particolare chi è in grado di pagare quote elevate per tenere in piedi la baracca, non ha senso. C’è un comitato al lavoro per studiare una riforma, affidato a Carlo Pesenti. Ma se ne sono già visti tanti di questi comitati, dai tempi di Pirelli nei primi anni ‘70. Non può produrre grandi risultati se ai vertici esiste un contrasto di fondo sulla natura e il futuro dell’organizzazione.
Tutte queste ambiguità sono emerse anche nella relazione di Squinzi, piena di toni accorati e di orgoglio capitalistico, ma anche di una lunga sequenza di lamentele. Il presidente se la prende quando vengono definite così, ma di questo si tratta, insieme a un catalogo di richieste giuste, ma irrealistiche perché non si sa come trovare le risorse per realizzarle. Ieri, è stato chiesto di tutto un po’: rifinanziare gli ammortizzatori sociali, sostenere l’edilizia, ridurre il cuneo fiscale, più investimenti nelle infrastrutture, la riduzione della bolletta energetica e dei tassi di interesse, ecc. Come se il bilancio pubblico non fosse sempre quello commissariato da Bruxelles: anche quando finirà la procedura d’infrazione il deficit dovrà restare sotto il 3%.
In ogni caso, non è un decimale in più a segnare la ripresa. La svolta, quella vera, comincia dai comportamenti, dall’impegno e dalla responsabilità dei soggetti dell’economia, dallo sblocco dei legami incestuosi, dal taglio di lacci e laccioli, dalla gestione oculata e produttiva del lavoro, ma anche del capitale. Se le banche impegnano miliardi di euro per sostenere gli assetti proprietari di Telecom, Alitalia, Il Corriere della Sera, Unipol (solo per fare qualche nome sotto i riflettori della cronaca) e poi lesinano i prestiti alle piccole e medie imprese, è anche colpa di quel capitalismo che Squinzi è costretto a rappresentare anche se vorrebbe farne a meno, un capitalismo fittizio che contrasta con quello reale.