L’idea di ripresa è astratta. L’ideologia dello start-up è ancora più astratta. Il ri-partire, in questa cornice, è soltanto un incantesimo della ragione calcolante. Fa parte di quelle che von Hayek, uomo di impronta realista e apologeta ragionevole della tradizione, chiamava “le fatali presunzioni della ragione”. E’ astratto tutto ciò che prescinde dalla concretezza dell’io. Tutto ciò che, per rassicurare l’individuo e le macchine desideranti e belligeranti sempre in tiro nella società afferra un brandello di mondo e lo spalma sulla mappa geografica dell’universo, cavando, alla fine, la zelante conclusione: ecco, è tutto qua, abbiamo finito! Nient’affatto. Non abbiamo neanche cominciato. Anzi, da questo cattivo infinito e triste ombra di delizioso nichilismo calcolante, dobbiamo liberarci, ma, sia chiaro, senza ulteriori torsioni che non farebbero altro che peggiorare la già pesante situazione. Perché, si sa, non c’è che un problema più grave di “quel” problema che intendi a tutti i costi “risolvere”: la tentata soluzione. Questo sì che rappresenta “il” problema in quanto tale.



In sintesi: lo start-up delle nuove aziende che dovrebbero nascere nel deserto italiano e la ri-partenza, come motore di non si sa bene quale macchina comunitaria e sociale, ecco i punteruoli che tormentano la carne dei raziocinanti in esercizio attivo.

Nessuno nega e può negare che in Italia si debba ripartire. Ma non sta né in cielo, né in terra che la ri-partenza della nostra economia sia dettata da nuove regole per la finanza, nuovi decreti del governo o, ancora più grottescamente, da nuove risorse da immettere nel circuito produttivo. Perché, molto semplicemente, alla fine le risorse ci sono, come ha più volte affermato, dati alla mano, Giulio Sapelli. Affermare, come molti “esperti” ancora fanno, che si debba a ogni costo trovare le risorse, con interrogativi apocalittici come “dove li troviamo i soldi?”, è a dir poco demenziale. I soldi ci sono perché le tasse sono roba da Stato collettivista oltrecortina e perché la gestione della finanza pubblica, contrariamente a quanto l’ideologia da ragioneria generale dello Stato voglia insinuare, non è cosa comparabile alla gestione dei capitali di un’azienda privata.



Nelle casse dello Stato i soldi ci sono sempre, anche a bocce ferme. Dunque, la ri-partenza pone un altro genere di questione, di natura diversa: qual è la sorgente, la scaturigine dell’impresa che chiamiamo economia? Domanda apparentemente astratta, ma che, in realtà, sembra proprio dimostrare la veridicità dell’assunto dell’epistemologo Gregory Bateson: non c’è niente di più concreto di una buona teoria.

Domandiamoci: come facciamo a ripartire se le nostre comunità umane sono state letteralmente desertificate? Se i territori umani non sono più luoghi e spazi dell’abitare, ma soltanto abitacoli di solitudini? Come si riparte se, di fronte al bisogno dell’altro, l’io non si muove, almeno per l’elementare ragione che, se oggi, tocca a lui, domani potrebbe capitare anche a me? L’impresa rappresenta la tavola della legge di un assioma documentabile nell’esperienza: è solo un soggetto che voglia dire “io”, in piena libertà, che può partire da qualunque punto della storia e del presente con un carico di genialità, altrimenti impensabile. Il “come” lo si riconquista a partire da questa coscienza.



Se, per ripartire, il peso si sposta dal combinato disposto di risorse pubbliche e macchine ferme sedicenti produttive, allora la partita non si gioca nemmeno. Quando l’Italia è davvero partita, durante il cosiddetto “miracolo economico”, la storia ha documentato che di tutto si trattasse, appunto, tranne che di “miracolo”. Non era affatto l’insorgenza comica dello stupore del Troisi dei primi tempi: ‘u miraculo! Non è la spianata delle truppe cammellate degli dèi che, in quel momento, hanno benedetto l’Italia, dopo tante sofferenze e miserie. No, è stato lo scatto della libertà dei singoli componenti di un popolo – cioè di un soggetto vero e storico, con una coscienza di quel che è stato, di quel che è e dunque di che sarà – a fare la differenza. Un passo semplice, perché elementare nelle sue ragioni costituive, ma non facile, a causa degli inquinamenti di cui sopra.

Ma cos’è un popolo? In un’intervista al Corriere della Sera del 18 ottobre 1992, don Giussani, rispondeva così, stimolato da Gianlugi da Rold: “Un ideale di vita umana o più umana, non può non suscitare l’interesse della gente, che in qualche modo si riconosce amica e collabora in vista di un percepito o supposto ideale di migliore umanità e cerca di trovare anche gli strumenti per realizzare questo ideale. Questo è un popolo”. Questa intervista andrebbe letta e riletta, perché declina, senza evidentemente farsi travolgere da moventi tecnicistici o utilitaristici, la natura della questione di cui si parla – il ri-partire – e anche la possibilità di trovare gli strumenti adeguati per questa mossa della ragione (sempre il ri-partire, appunto).

La domanda, allora, non è “come ripartire?”, ma, ben più radicalmente, chi riparte e con chi? In vista di quali ideali e, dunque, sulla base di questi ideali percepiti e vissuti, con quali strumenti Anche il “come” ripartire detto e definito da “esperti” e “tecnici” può essere il peggior veleno per l’io, perché, se sei una mina vagante e un nichilista, le tue soluzioni non potranno che seguire questa tua posizione. E saranno – come sono, in realtà – estranee alla posizione generativa di un io che voglia porsi come protagonista nella realtà.

Tutto questo sembra astratto? Sì, può darsi, ed è questo infatti il test che mostra come, dalla ripresa degli anni Sessanta del secolo scorso a oggi, si sia perso il filo rosso che connetteva gli ideali di un popolo ai bisogni e desideri dell’io, del soggetto. Si riparte se e solo se, nell’azione dettata dalla necessità della ripartenza, si faccia risaltare, senza equivoci, la forza e perfino il potere del singolo, che raccoglie la sfida e, insieme ad altri uomini vivi, si mette a provare e riprovare – trials and errors dice l’epistemolgia economica, tentativi ed errori – la strumentazione adeguata per realizzare quanto desiderato e perseguito. Perché il metodo è imposto dall’oggetto e non può essere elaborato nella camera di falsa compensazione dei “tecnici” e degli “esperti”. Per ragioni di natura e funzione degli intelletti dei medesimi, non per mera polemica.

Il punto è che, nella galassia sociale postmoderna, molti collettivi hanno rialzato la testa – lo afferma con vigore intellettuale Claudio Risé nel suo ultimo libro dedicato alla figura del padre – e questo oggettivo riscontro può condurre o al disincanto prossimo al cinismo o all’urgenza della sfida, con la domanda aperta: “Qual è la prossima sfida?”. Ebbene, un certo mondo cattolico, tendente naturaliter all’ideologizzazione, ha stigmatizzato sempre l’opera e il pensiero di Margaret Thatcher, ma invece è proprio dalla Lady di ferro, morta di recente, che possiamo attingere, con la giusta esegesi, per aprire il varco della conoscenza della forza del singolo.

Il Vescovo di Londra, Rev. Richard Chartres, nella sua omelia ai funerali di Stato dell’ex premier, ha spiegato: “La sua ultima sottolineatura sul fatto che non vi sia una realtà come la “società” non è stata adeguatamente compresa e fa riferimento, in ogni modo, a un’entità impersonale alla quale noi siamo tentati di consegnare la nostra indipendenza”. La nostra indipendenza, ossia la nostra tensione ad affermare quegli ideali che ci hanno reso gustosa e affascinante la vita e – in ragione di ciò – possono favorire la crescita della ricchezza materiale e immateriale. Il bene per noi e per gli altri. Con gli altri. Questo è il bene comune.

Ritorniamo circolarmente alla declinazione della categoria messa in campo da Carron: l’altro è un bene. Anche in questo contesto, lo è se ci sono io, e se il mio io è impegnato fino in fondo, senza consegnare ai “tecnici”, agli “esperti”, alla “società” o, infine, al “governo” la soluzione dei miei problemi o l’urgenza, del tutto giustificata, di ripartire.