Tutto muta nella strategia e nel lavoro industriale. Su scala mondiale. Si percepiscono i ritmi tellurici di una trasformazione in corso che i più non avvertono, storditi dal rumore delle ferraglie della finanza a eccesso di rischio e delle polemiche di piccolo cabotaggio, per carità, importantissime, sull’Imu e sull’Iva. Ma c’è altro ed è decisivo. Alziamo la testa! Ma è l’industria, invece, a trasformarsi. Si torna alla riallocazione degli stabilimenti un tempo delocalizzati, se non si lavora per quei mercati lontani; si ritorna alla verticalizzazione di talune funzioni della produzione perché si trasformano rapidamente costi di transazione che parevano eternamente stabili. Muta lo stesso concetto di concorrenza: diventa competizione tra pratiche e non solo tra beni e servizi misurati dai costi di produzione e di distribuzione.



È la distintività che fonda oggi, più di un tempo – o meglio ritornando ai tempi rinascimentali e tardo ottocenteschi – la competizione. Pone tale competizione su piani interamente diversi da quelli di un sentiero in equilibrio. La stessa concorrenza muta volto. Oggi la concorrenza è determinata dalla competizione tra popolazioni organizzative che creano continui squilibri di pratiche e di esecuzioni perfette e inesorabilmente pertinenti di strategie e di forme di lavoro irripetibili altrove. Così si compete: trasformando continuamente l’eccellenza, non disintermediando continuamente, come si pensava si dovesse fare in passato.



È il movimento sociale che crea questa trasformazione: è la nascita del senso di ingiustizia e di giustizia laddove pensavamo che non fosse mai nato e che non potesse nascere mai. Ma è anche la trasformazione tecnologica in corso, che è più rapida della capacità di comprenderne i significati sociali ed economici. Tutto ciò cambia il significato che un tempo attribuivamo a concetti quali sostenibilità oppure corporate social responsability. Si afferma sempre il concetto che ciò che si deve sostenere è l’azione della direzione d’impresa nell’assumersi responsabilità nei confronti delle generazioni future sul piano economico e sociale. Questo va incontro a ciò che mi pare il dato caratteristico del cambiamento in corso: oggi acquista importanza strategica la sostenibilità delle pratiche distintive nel lavoro e del lavoro.



È la riproducibilità della competenza, ossia delle capabilities e delle stesse passioni che quelle capabilities rendono utilizzabili e riproducibili nel lavoro industriale. Il talento non è mai solo perfetta esecuzione, ma faticosa (sempre!) integrazione tra passione e competenza. In questo senso il talento è una capacità. Sostenere le capacità è più arduo che sostenere le competenze. Occorre riprodurre non solo il sapere tecnico, ma anche i valori morali che rendono questo sapere tecnico, queste pratiche tacite o scritte, un valore. Un valore che attraverso l’esperienza si può trasmettere e riprodurre. È un compito enorme: di sostenibilità educativa – dentro e fuori il luogo di produzione – in primo luogo. Esso, tale compito, ridefinisce il lavoro dell’alta direzione così come quello degli operatori alle macchine e ai sistemi. È il nuovo orizzonte della sostenibilità che questo accordo aiuta a ridisegnare.

La trasformazione economica e sociale in corso, infatti, è molto rilevante e riguarda tanto le grandi quanto le piccole e medie imprese. Oggi la politica deflazionistica in atto in Europa e il restringimento dei mercati interni per i bassi salari hanno costretto le imprese europee, anche quelle tedesche, a lavorare soprattutto non più sulla svalutazione competitiva, ma, laddove è stato possibile, sull’innovazione e la ricerca dell’aumento della produttività del lavoro; da questo punto di vista molte industrie debbono la loro sopravvivenza all’aumento costante della produttività del lavoro anziché alle svalutazioni competitive.

Per talune di esse la crescita è avvenuta pur essendo ancora profonda la crisi industriale che sconvolge il mondo. In Europa in specie, la loro crescita è dovuta in primo luogo al fatto che esse godono dei vantaggi derivati dall’essere l’industria intera, ormai, fortemente debitrice delle competenze idiosincratiche, ossia specializzate e non facilmente riproducibili in territori diversi da quelli in cui si addensano l’industria e le imprese: ivi quelle competenze specialissime sono assi presenti.

Vi sono, quindi, dinanzi alle imprese due vie: la prima è quella di continuare sulla strada dell’esportazione dipendendo sempre di più dalle imprese madri straniere di cui esse sono fornitrici; la seconda è quella di cercare margini di profitto e di solvibilità della domanda anche sul mercato interno. Entrambe queste due vie sono possibili. E molte piccole e medie imprese riescono a far ciò fondamentalmente attraverso una sostanziale cooperazione tra capitale e lavoro che dura ormai da circa un ventennio.

Si può dire che forse questo è il più grande cambiamento intercorso nell’industria europea.