A proposito delle incertezze che in questo momento stanno avvolgendo le intenzioni del governo italiano in materia di mosse tributarie da adottarsi nel corso dell’estate (evitare l’aumento dell’Iva? Cancellare o rimodulare l’Imu? Ridurre il cuneo fiscale?) può essere utile prestare attenzione alle riflessioni che provengono in questo stesso momento dall’Australia, e più precisamente dall’Università di Melbourne, per bocca di un suo docente, John Freebairn. Rifacendosi anche a un recente e autorevolissimo Rapporto britannico sulla riforma fiscale (The Mirrlees Review: Tax by Design, Oxford 2011), il suggerimento del professore è il seguente: se in Australia si vuol dare corso a una qualche riforma fiscale, si proceda alla sostituzione di una certa quantità di gettito oggi proveniente da imposte ampiamente distorsive (come l’imposta di bollo e l’imposta sul reddito) con un’analoga quantità proveniente da un potenziamento dell’imposta sui beni e servizi (Goods and Service Tax, Gst), l’equivalente australiano dell’Iva europea. Il minore impatto distorsivo della Gst/Iva deriva dalla scarsa o nulla elasticità/prezzo della base imponibile all’aumentare dell’aliquota. È vero, ammette l’economista, che il consumo come quota del reddito diminuisce al crescere del reddito, e che quindi la Gst è tendenzialmente regressiva, ma è anche vero che i “pacchetti tributari” dovrebbero essere valutati nelle loro incidenza complessiva (viene spontaneo rammentare a questo proposito quanto saggia sia la dizione della nostra Costituzione, che – all’art. 53 – parla del “sistema tributario”, e non di ogni singolo tributo, che dovrebbe essere improntato al principio della progressività). La riforma più raccomandata dall’economista (e qui si ritorna più direttamente all’attualità italiana) è comunque quella consistente nell’aumentare l’aliquota della Gst dal 10% attuale al 12,5% o addirittura al 15%, utilizzando il maggior gettito per rimpiazzare o ridurre quelle imposte ampiamente distorsive che sono l’imposta statale di bollo (stamp duty) e quelle federali sui redditi. Viene citato al riguardo il concetto teorico di “costo marginale in termini di efficienza” (marginal efficiency cost) che andrebbe dai 12 cents per dollaro di gettito della Gst ai 24-37 cents delle imposte sul reddito personale e d’impresa, fino addirittura agli 80 cents e oltre della tassa sui trasferimenti di proprietà. In soldoni, la Gst presenta meno “sprechi” per l’economia rispetto alle altre imposte ed è quindi più efficiente. A parte i dubbi possibili sull’esattezza dei differenziali di efficienza tra i tributi – afferma Freebairn – non vi sarebbe motivo di dubitare che una riforma del tax mix implicante più Gst e meno imposte inefficienti (a cominciare da quelle sui redditi) apporterebbe notevoli guadagni alla produttività nazionale. In particolare, merita attenzione (da parte dell’Australia, secondo l’Autore qui citato, ma anche da parte degli italiani, aggiungiamo noi) la sostituzione Gst/imposta sul reddito, che si immagina neutrale rispetto al gettito totale, rispetto alla ripartizione del gettito tra Commonwealth e Stati (quindi tra i diversi livelli di governo) e, cosa più importante, rispetto alla distribuzione tra categorie demografiche e reddituali.



Un tale scambio farebbe complessivamente guadagnare efficienza al sistema economico perché se è vero che le distorsioni in termini di offerta di fattori produttivi (capitali, materie prime, lavoro, ecc.) sono simili, la Gst, con la sua base data dai consumi, abbassa la pressione fiscale su risparmi e investimenti, mentre le imposte sui redditi l’aumentano. Tale esito – afferma il Freebairn – sarebbe particolarmente fruttifero per l’Australia, importatrice di capitali. Inoltre – prosegue lo studioso – aliquote delle imposte sui redditi più basse, ma pur sempre positive, riducono la dispersione delle aliquote effettive d’imposta sulle diverse opzioni tra risparmi ed investimenti, il che a sua volta riduce le distorsioni fiscali gravanti sul mix del più ampio stock di capitale e dunque aumenta la produttività. Per quanto riguarda le famiglie, l’extragettito di una potenziata Gst – che causerebbe indubbiamente un più elevato costo della vita – dovrebbe essere usato per rendere più progressivo il prelievo sui redditi abbassando le aliquote della stessa percentuale (togliere il 5% all’aliquota base del 15% significa abbassare del 33% il prelievo, mentre togliere lo stesso 5% all’aliquota massima del 50% significa ridurre solo del 10% il peso del tributo). Alla fine, afferma l’economista, grazie alle minori distorsioni complessive il Pil nazionale ne guadagnerà. In questo momento il nostro Governo è alle prese con il lancinante problema “aumentare o no le aliquote Iva” magari in concomitanza con un abbassamento delle aliquote Imu e/o un taglio alle imposte sul lavoro, sull’impresa e quant’altro. Ma l’aumento dell’Iva sembra suscitare fantasmi di catastrofi particolarmente paurose. Viene allora spontaneo chiedersi se il suggerimento dottrinario sopra illustrato, proveniente dal lontano continente, non potrebbe alleviare i mal di pancia che affliggono i nostri decisori nell’affrontare tale problema.

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